La sfida più grande
La sfida più impegnativa in tutte le esperienze comunitarie è riuscire a dar vita a un “noi” che non finisca per mangiare gli “io” delle singole persone che lo hanno generato. I nomi collettivi sono buoni e dalla parte della vita solo se sono accompagnati e preceduti dai nomi e dai pronomi personali. I “noi” senza gli “io” sono all’origine di tutte le patologie comunitarie e dei regimi illiberali, anche quando si presentano come promessa di liberazione e si rivestono di una veste salvifica. Le comunità servono le loro persone solo se riconoscono di essere seconde, consentendo che la prima persona singolare preceda quella plurale. Quando quest’ordine naturale dei plurali e dei singolari viene invertito o negato, i cammini personali si guastano, le vocazioni sfioriscono, la comunità tradisce se stessa.
Il destino di ogni vocazione è la generazione di nuova vita, la liberazione di schiavi dai faraoni, oltre il mare. Ma ogni vocazione è anche una grande storia d’amore. Il suo buon sviluppo nel tempo sta allora nella possibilità concreta di poter tenere assieme la chiamata alla liberazione di oppressi con la delicata gestione delle emozioni narcisistiche presenti in ogni innamoramento. In principio c’è l’eros. La voce ci incontra, ci chiama e ci seduce, e ci ritroviamo dentro il sogno dei sogni. Tutto attorno canta ed è illuminato da un nuovo sole dentro, più vero e luminoso di quello che splende fuori. Si accendono tutti i sentimenti, si muove e commuove il cuore, la voce che ci chiama si sente e si tocca come il pane, come le persone. È una esperienza sublime, indispensabile per far iniziare ogni volo alto sotto il sole. E chi l’ha conosciuta continua a cercarla per tutta la vita. Ma perché la vocazione prosegua bene il suo sviluppo, è necessaria la maturazione dell’eros in philia (amicizia). Quando ciò accade, la prima chiamata diventa una esperienza di compagnia e di fraternità. Si esce dal registro unico e prevalente del sentimento e della passione e si costruiscono comunità. Non è detto che i sentimenti e l’innamoramento scompaiano, ma non sono più né l’unico né il primo linguaggio.
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Nelle vocazioni che non si guastano lungo la strada, la philia, nata dalla maturazione dell’eros, fiorisce a sua volta in agape. È questo il tempo della maturità piena, quando i fiori della primavera diventano i frutti dell’estate. La comunità che ha custodito la prima vocazione e l’ha fatta diventare un’avventura collettiva condivisa e feconda diventa ora il trampolino di lancio verso orizzonti nuovi dello spirito. La comunità svolge il suo mestiere di pedagogo buono e introduce finalmente la persona alla vita adulta. Si continua a vivere con e per gli altri compagni di viaggio, ma con una libertà e una verità tutte nuove. La liberazione promessa dalla prima chiamata qui raggiunge un primo traguardo: si è liberati dalla stessa comunità che ci era stata donata. Si capisce che si è stati mandati per una comunità più grande della propria: quella di tutti. Si scopre che la famiglia che ci ha accolto non era l’ultima parola, ma solo la penultima.
Da “Elogio dell’auto-sovversione” di Luigino Bruni (Città Nuova, 2017)