La sfida di Battòre

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Io non vado a convertire i musulmani, non vado nemmeno a portare Dio, vado a scoprire Dio in loro, a lavorare con l’uomo per la liberazione dell’uomo e di tutto l’uomo. Queste le parole, conservate nel cuore, e ripensate alla luce degli avvenimenti successivi, dalla sorella suor Lucia, la Chianna (Lucianna) degli anni dell’infanzia. È il primo gennaio 1990 e padre Salvatore Carzedda, missionario del Pime, dopo un intervallo di tre anni a Chicago, riparte per le Filippine dopo una sosta in Sardegna. Non più nel piccolo centro missionario di Siocon, dove aveva operato per una decina d’anni, ma a Zamboanga City, sempre nell’isola di Mindanao. Con un compito specifico e ancora tutto da sperimentare: il dialogo interreligioso con i musulmani. Era partito entusiasta, pieno di progetti, per la nuova destinazione in una delle località più difficili dell’arcipelago. Dopo la sua morte, sono stati raccolte e pubblicate le sue lettere. Leggendole, sorprende il tono affettuoso con cui esprime il suo pensiero. Battòre, così si firma, scrive ai numerosi parenti ed amici in Italia, partecipando con sincera amicizia agli eventi, luttuosi o gioiosi, di cui è messo al corrente. Li informa a sua volta del suo delicato lavoro missionario, trovando le parole adatte. Scrive ad esempio nel 1990 ad una nipote: Carissima Antonietta, il processo di dialogo interreligioso sta prendendo piede qui a Zamboanga, una città divisa dall’odio tra i due gruppi religiosi, musulmani e cristiani. Il lavoro aumenta giorno dopo giorno poiché molti, scuole e gruppi, cominciano a capire l’importanza del dialogo. Pertanto è chiaro che non lavoro più in parrocchia nei villaggi, ma qui nella città. Mi vengono però in mente le parole di san Paolo: Noi non siamo come coloro che non hanno speranza…. Non nasconde, o minimizza, la drammaticità degli eventi, spiegando ai familiari nel dicembre del 1990: La vita qui nelle Filippine è alquanto tesa. La Conferenza nazio- nale per la pace, di cui fa parte anche la Conferenza episcopale, riunitasi nel mese scorso ha presentato alla Cory (Cory Aquino, all’epoca presidente della Repubblica, ndr.) la propria visione di pace per questo tormentato paese. La Conferenza insiste per un dialogo di pace con tutti i gruppi armati. Propone inoltre una significativa riforma agraria che dia ai contadini la possibilità si sopravvivere. Lo scenario descritto è tragico. Eppure, caparbiamente, in mezzo a tanta confusione e lotta per la vita, noi continuiamo a lavorare per la pace attraverso il processo penoso del dialogo.Un processo doloroso, ma esaltante. Battòre è cresciuto nella vita semplice e sana della famiglia, del vicinato, della parrocchia del piccolo paese di Bitti, nella provincia d Nuoro, di origini antichissime, che conta circa cinque mila abitanti. Sognava il sacerdozio fin da bambino – ricorda la sorella Chiana, religiosa salesiana -. Gli ripetevamo: Tu vuoi farti sacerdote per andare in moto come don Mattu (il giovane viceparroco di allora). No, vi sbagliate – ripondeva -lo so che occorrono molti sacrifici. E quando, tempo dopo, Battòre confidò che voleva farsi missionario, figlio mio – gli disse la mamma – pensaci. Io ti lascio libero. Ricordati però che anche come missionario dovrai studiare. Sacerdote nel 1971, parte per le Filippine sei anni dopo la suggestiva cerimonia della consegna del crocefisso da parte del vescovo. Al termine della consegna, volle prendere la parola: Adesso – è sempre sua sorella ad annotare – leggo una preghiera. Vi dico che la pronuncio a denti stretti, sono cosciente di quello che sto per dire: amo la vita. Signore, se dovessi morire come padre Mazzucconi (fondatore del Pime, morto martire), ti offro la mia vita. Nel paese asiatico covano sotto il ferreo pugno della dittatura, fomentati dalla corruzione e dalla disuguaglianza sociale, i secolari antagonismi degli abitanti. Soprattutto nel sud, nella grande Mindanao, il malessere è palpabile. Salvatore trova a Zamboanga City un confratello, Sebastiano D’Ambra, a cui è legato da una salda amicizia sin dai tempi della formazione religiosa. Ciò che prima conoscevano astrattamente, lo toccano ora con mano. La situazione si fa critica: non vi è alternativa al tentare la via dell’incontro, del dialogo tra le due componenti cristiana e musulmana. Via ardita, ma necessaria. Padre D’Ambra comincia a dare corpo ad un progetto che accarezza da tempo: costituire un gruppo di dialogo tra cristiani e musulmani proprio a Zamboanga City. Padre Salvatore lo segue con entusiasmo. Nasce il Silsilah – parola araba che significa catena – usata dai mistici musulmani sufi per evocare il legame che c’è tra la creatura e il Creatore. Lo stesso concetto di legame sta alla base del cammino spirituale verso Dio e verso gli altri, e nell’incontro tra persone di diverse culture e religioni. Scrive in proposito padre D’Ambra: La novità di questo movimento, formato da cristiani e musulmani, autonomo nella gestione per permettere a tutti di sentirsi parte viva di un movimento di dialogo interreligioso, è la ferma volontà di partire da un cammino spirituale per arrivare all’impegno sociale. Vari sono stati sin dalla sua nascita i tentativi di scoraggiare l’attività di questo movimento, che già da allora rappresentava uno dei segni visibili di volontà di dialogo e di pace. E, certamente, quella sera del 20 maggio 1992, chi aveva armato la mano assassina intendeva infliggere un colpo mortale al movimento Silsilah e agli ideali che stava portando avanti. Ma così non è stato. Padre Carzedda, dunque: un sardo di Barbagia che amava descrivere il suo paese natale, come una piccola Roma dai sette colli, che ha dato i natali a grandi poeti e uomini politici. E, aggiungeremmo noi, a testimoni di un mondo di fraternità che sarà, perché è già presente in persone come don Santoro e padre Carzedda. Andando oggi a Bitti, non è facile riconoscere dove siamo i sette colli descritti da Battore. Quel che tutti sanno in paese è che, nel cimitero ai piedi del monte Sant’Elia, c’è una tomba con un’epigrafe: Padre Salvatore Carzedda, martire del dialogo interreligioso.

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