La sfida delle migrazioni
Nel giugno 1993 così Giuseppe Dossetti rispondeva a un gruppo di giovani, che gli ponevano la domanda sulla questione delle migrazioni che già allora stava emergendo: «Il problema non è di facile soluzione perché sono in conflitto due doveri: da una parte, c’è il dovere di ospitalità e di apertura, specialmente in certe circostanze di emergenza o di sopravvivenza fisica, per motivi economici, politici o militari; dall’altra, l’emergenza non può giustificare una apertura indiscriminata. È chiaro che si devono condannare tutte le manifestazioni di lotta allo straniero perché straniero… Di fronte alla eccessiva larghezza indiscriminata o incondizionata, si sta ora ritornando indietro. Si può aprire solo fino ad un certo punto e a certe condizioni. Non è neanche detto che la sola apertura possa risolvere il problema, perché gran parte di questo afflusso di stranieri dal terzo mondo nel nostro Paese non è solo conseguenza della loro compressione demografica, ma anche la conseguenza della mancanza totale di punti di attivazione, che devono essere cercati e promossi, non credendo che sia solo l’indiscriminata emigrazione la soluzione dei problemi di questi Paesi.
(…) sinora si è parlato di sviluppo dei Paesi sottosviluppati, ma se ne è parlato in un modo equivoco, addirittura quando non criminale in certi casi, perché anche noi siamo colpevoli sotto questo aspetto di avere fatto una operazione di sviluppo rivolta soprattutto al guadagno di alcuni e non al favore reale che si doveva promuovere per questi Paesi al fine di uno sviluppo interno delle loro società.
Certo, questo è un problema che si pone in modo urgente a tutti gli stati, alla comunità internazionale, di promuovere uno sviluppo interno dei paesi sottosviluppati tali da trattenere gran parte della popolazione, se ci riuscirà. Perché poi non c’è solo la componente oggettiva dei fatti, cioè l’iperpopolamento, c’è anche una attrazione psicologica: visti dall’altra sponda, noi appariamo come Paesi della vita facile. Basta entrare nei nostri Paesi e quando si è messo il piede dentro si pensa che tutta la propria condizione vitale sia trasformata: visti dall’altra sponda, noi appariamo come Paesi della vita facile.
Certo la loro è una condizione gravissima dal punto di vista oggettivo, ma anche con una componente psicologica molto forte, che è difficile da arginare. Non è possibile risolvere i problemi dell’Africa del nord soltanto aprendo le porte. Oltretutto non solo provocheremmo un danno grave a noi, ma provocheremmo anche un danno, anche una illusione fatale per queste migliaia e migliaia di persone.
Il diritto di una certa selezione dell’immigrazione diventa più oggettivo e più forte quando lo Stato che dovrebbe accogliere ha e può documentare di avere una moralità che non sia esclusivamente egoista. Invece noi ci stiamo comportando dal punto di vista della morale familiare in modo esclusivamente egoista. Questo invecchiamento della nostra nazione, questa diminuzione sempre più forte delle nascite, ci pongono inevitabilmente in una condizione di inferiorità non solo effettiva, ma giuridica, morale, etica rispetto ai popoli che non hanno da mangiare. E non è che aumentando si aumenterebbe il disagio generale, aumentando, noi avremmo più titolo per difendere la nostra società e pretendere che anche coloro che pensano di venire nei nostri confini ci vengano in un certo modo e con una certa consapevolezza dei rispettivi doveri».
Ecco alcuni punti, che nascono dalla lettura di questo testo:
1) Un conflitto di doveri
Già 25 anni fa apparivano evidenti le questioni, i diversi doveri che confliggono tra di loro, quello dell’accoglienza, ma anche l’individuazione del limite dell’accoglienza. Qui si gioca la responsabilità della politica, il cui spazio sta nell’organizzare il limite, nel governarlo.
2) La guerra e le migrazioni
Nel 1989 cade il muro di Berlino ed iniziano le guerre balcaniche, che dureranno un decennio. È evidente che la guerra alimenta le migrazioni. La gente si sposta per uscire dalla guerra. Basti pensare alla prima guerra del Golfo, che ha la sua fonte nella fine dell’impero sovietico. Al tempo stesso il fondamentalismo islamico rischia di incendiare l’Algeria e il Medio Oriente.
3) La povertà come causa delle migrazioni
Si è sfruttata l’Africa piuttosto che investire in essa e ancora oggi bisogna evitare la tentazione della retorica. Tutti oggi parlano di piano Marshall per l’Africa, ma nessuno, tanto meno l’Europa, costruisce un piano con risorse, tempistica, strumenti. Non ci possiamo accontentare del piccolo progetto della ong, che serve a tacitare le coscienze, ma urge un disegno più ambizioso, che possa investire risorse, che permettano di avviare un vero sviluppo africano. Ad oggi su questo c’è solo la riproposizione delle formule retoriche. Certo tutto è molto difficile, ma non possiamo contentarci delle formule. Soprattutto gli impegni devono essere efficaci ed effettivi.
4) La fiducia nella politica
Nel ’90 Mandela esce dal carcere e nel 1994 diventa il presidente del Sud Africa, un grande leader mondiale che viene dal sud del mondo. Il continente africano, con il suo leader più carismatico, si candida ad un ruolo inedito nel governo del mondo e del sud del mondo. Forse oggi possiamo dire che abbiamo perso una occasione, ma certo la parabola di Mandela mostra che anche l’Africa è in grado di selezionare una nuova classe dirigente, senza invadere il potere.
5) La lotta allo straniero
Con grande astuzia, oggi si sperimenta la lotta allo straniero perché straniero. Ecco la radice violenta del populismo, che sostituisce in modo aggressivo il pauperismo terzomondista. Dossetti fa un discorso nel segno della sapienza, della prudenza, l’esatto contrario della paura, cercando di rispondere ai bisogni di tutti. È evidente la delicatezza della questione, se vuole conseguire risultati significativi. Ecco la grande sfida della politica con tutta la fragilità delle soluzioni.
6) L’Africa e l’Europa
Non è un lusso investire in Africa. È una necessità, perché solo con lo sviluppo, investendo nel continente, sarà possibile uscire da un passato di povertà, che domandava più generosità e più visione.
7) Alcuni dati
13 mila persone sono morte nel Mediterraneo dal 2014 al 2017. L’Unione europea deve investire almeno 6 miliardi per chiudere le rotte mediterranee. Prima del 2016 passavano dal Niger 150 mila migranti, nel 2018 sono scesi a 5 mila. Delle 650 mila richieste di asilo presentate nella Ue nel 2017, 416 mila sono state introdotte in soli tre Paesi: Germania, Italia e Francia. Nel prossimo bilancio della Ue servono almeno 40 miliardi di euro per un piano Marshall per l’Africa. L’obiettivo è mobilitare almeno 500 miliardi di investimenti nei prossimi 10 anni.