La sfida della convivenza tra israeliani e palestinesi
Due attacchi suicidi a Gaza, nella Striscia di territorio palestinese governata da Hamas. La prima esplosione è avvenuta nella notte del 27 agosto scorso in un posto di blocco a Sud di Gaza City, la seconda pochi minuti dopo ad Ovest della città. I due attentati hanno provocato, oltre a numerosi civili feriti, la morte di tre militari di Hamas e dei due kamikaze. L’agenzia palestinese Shehab parla di un “tentativo di colpire la stabilità e la sicurezza dei cittadini”. L’esercito israeliano nega un proprio coinvolgimento. Che significa? Se non sono stati gli israeliani, chi ha interesse a colpire Hamas e perché?
Si rincorrono due ipotesi, entrambe inquietanti: secondo fonti vicine al governo della Striscia, gli attentati sarebbero da attribuire alla Jihad islamica; secondo la Bbc, che cita fonti sia palestinesi che israeliane, l’azione sarebbe da attribuire al Daesh, lo Stato Islamico, che in questo modo manderebbe un segnale inquietante, soprattutto ad Hamas. In entrambi i casi si tratterebbe di islamisti contro altri islamisti.
Quale che sia la matrice degli attentati a Gaza, la situazione è assai complessa, ma si potrebbe comunque interpretarla alla luce della crescente espansione salafita che sembra coinvolgere giovani militanti sia di Hamas che della Jihad islamica palestinese (filo-iraniana).
Hanan Ashrawi, palestinese e cristiana, più volte ministro dell’Anp, sostenitrice della protesta non violenta e della disobbedienza civile, così commenta la situazione: «La cifra di questi atti di ribellione è la disperazione, è la frustrazione che anima migliaia di giovani costretti a sopravvivere circondati da muri o imprigionati a Gaza… Quando la diplomazia internazionale rinuncia ad agire, quando viene meno ogni prospettiva di dialogo, quando a Gerusalemme Est prosegue la pulizia etnica della popolazione araba, allora ciò che resta è solo un desiderio di vendetta. È tragico, ma è così».
E questo clima di disperazione non riguarda solo Gaza, ma coinvolge anche i Territori Occupati della Cisgiordania, dove vivono quasi tre milioni di palestinesi paradossalmente assediati da 400 mila coloni ebrei arroccati negli insediamenti. Anche l’Anp sta da tempo tirando i remi in barca, rinunciando a quel poco che resta della sua sovranità. Il premier Netanyahu ha ribadito recentemente: «Con l’aiuto di Dio estenderemo la sovranità ebraica a tutti gli insediamenti come parte dello Stato di Israele». E il primo settembre scorso ad Elkana (un insediamento ebraico nei Territori Occupati) ha precisato: «Questa è la nostra terra. Costruiremo un’altra Elkana e un’altra ancora. Non manderemo via nessuno [ebreo] da qui». Cioè manderemo via i palestinesi.
La politica “sovranista” del governo israeliano non si ferma però ai palestinesi, ma nel clima di difesa ad oltranza dal nemico, attacca con raid aerei, missili e droni anche le vere o presunte basi dei “terroristi” in Iraq, Siria e Libano. Con il massiccio sostegno della politica Usa, e perfino dei Sauditi.
Ci sono però segnali che qualcosa potrebbe cambiare in Israele. Non tutti gli ebrei israeliani sono sovranisti o ultraortodossi, anzi si calcola che a livello sociale la maggior parte siano Hilonim (49%) o Masortim (29%), sostanzialmente laici.
Le prossime elezioni del 17 settembre rappresentano, forse, una possibilità di cambiare l’orientamento del governo israeliano. La nuova coalizione centrista Kahol Lavàn è sostanzialmente contrassegnata da una visione laica dello stato ed ha raccolto al suo esordio in aprile il 26% dei consensi, alla pari con il Likud di Netanyahu.
Inoltre, il mese scorso si è riaffacciato sulla scena politica l’ex primo ministro Ehud Barak (77 anni), l’ultimo laburista a capo di un governo israeliano. Barak ha recentemente fondato un nuovo partito, Israele democratico, che si è subito unito al Meretz, la sinistra pacifista israeliana, e con alcuni fuoriusciti laburisti hanno dato vita alla coalizione Campo Democratico, che esordirà alle elezioni del 17 settembre. Sulla questione dei palestinesi, Barak afferma: «Continuo a ritenere che c’è una maggioranza di israeliani che crede in una pace nella sicurezza. Il che significa uno Stato palestinese smilitarizzato, ma qual è l’alternativa che la destra propone: uno Stato unico…, ma in questa idea di Stato i palestinesi non sono contemplati, ma essi esistono, e con loro dovremmo imparare a convivere. So che non è facile, ma è una sfida che non possiamo mancare».