La sfida del Kossovo
Alle 15.51 di domenica 17 febbraio il Parlamento di Pristina ha dichiarato ufficialmente l’indipendenza del Kosovo. Il Paese è orgoglioso – ha detto il premier Hasim Thaci – perché da oggi è indipendente e libero. L’esultanza della popolazione di etnia albanese straripa per le strade in un tripudio di bandiere: quelle con l’aquila bicipite nera su fondo rosso dell’Albania e quelle con cinque stelle gialle che incoronano il pentagono del Kosovo, ispirate all’Unione europea: omaggio ai Paesi che hanno garantito il processo di indipendenza. Ma sventolano pure bandiere a stelle e strisce perché l’appoggio americano è stato determinante per arrivare a questo giorno. A Prizren 2 mila persone srotolano per strada una bandiera lunga tre chilometri. La torta che viene tagliata e distribuita in piazza pesa 15 quintali e la birra preparata per le libagioni molto, molto di più. Non lontano da qui, dentro le enclave degli antichi monasteri ortodossi dove si trincerano esigue minoranze di serbi, regnano silenzio e sgomento; più a nord, oltre l’Ibar, nella fascia a maggioranza serba di Kosovska Mitrovica le manifestazioni della gente sono di segno opposto. In breve la protesta esplode in tutta la Serbia e, com’era prevedibile, le dimostrazioni più violente si verificano a Belgrado dove centinaia di migliaia di persone scendono in piazza e i più scalmanati prendono d’assalto le ambasciate dei Paesi che hanno per primi riconosciuto il Kosovo, a cominciare da quella degli Stati Uniti che viene data alle fiamme. Tutto scontato, si dirà, per chi ha seguito gli avvenimenti in questa regione dei Balcani andata a fuoco per ultima nel grande rogo della disintegrazione jugoslava, difesa strenuamente dalla Serbia perché patria storica della sua gente, ma oggi ridotta ad ospitare un esiguo 10 per cento di serbi, contro una presenza di albanesi che raggiunge il 90 per cento. Come non ricordare gli episodi di efferata crudeltà con cui fu perpetrata anche in questa provincia, come già in Bosnia, la pulizia etnica? Una tragedia cui misero fine solo l’intervento estremo e controverso dei bombardamenti su Belgrado; e la dislocazione nel Kosovo di truppe delle Nazioni Unite e dell’Unione europea. È questa storia dolorosissima di cui si chiude oggi un capitolo, forse non ancora l’ultimo, perché il contenzioso che si è aperto rimane vasto e complesso ed esorbita dal semplice teatro kosovaro. Si sa che i serbi hanno avuto da sempre un grande santo protettore, la madre Russia, che per secoli, nel prendersi cura degli slavi del sud, ha cercato di aprirsi una strada verso il Mediterraneo. Affinità di razza, (quella slava) e di religione (quella ortodossa) hanno favorito questa politica. Fu tra le montagne del Kosovo che i serbi si rifugiarono, incalzati dagli ottomani, già un secolo prima della caduta di Costantinopoli. Qui costruirono i loro monasteri e organizzarono una resistenza sfortunata che culminò nella battaglia della Piana dei Merli nel 1389. Furono sconfitti, ma in quell’epico scontro presero coscienza di essere una nazione. Iniziò da allora una lunga ritirata verso nord che durò secoli e che li portò a offrirsi come truppe di confine agli Asburgo che, come loro, combattevano gli ottomani. Le vaste enclave serbe ancora presenti in Bosnia, in Croazia e in Voivodina, nacquero in quei secoli di diaspora. È di quegli anni anche il sogno serbo di cercarsi una nuova patria fra gente slava con la stessa loro fede ortodossa, cioè nella Russia della grande Caterina che doveva popolare immensi territori disabitati, anch’essa per contrastare la penetrazione ottomana. Finché, a metà del 1700, una lunga colonna di serbi si mise in marcia con donne e bambini, bestiame e masserizie, guidata dal proprio clero e, dalle rive del Danubio, raggiunse quelle del Don. Ma nei lunghi anni della diaspora il cuore dei serbi non cessò di battere per le verdi vallate del Kosovo nel ricordo mitizzato dei loro antichi monasteri e di un’epoca che li aveva visti egemoni nel sud dei Balcani. Ci sarebbero tornati, tra quei monti, attraverso una lenta riconquista aiutati dagli austriaci e poi dai russi durante le guerre balcaniche e nelle due grandi guerre mondiali del secolo scorso. Oggi è ancora una volta nei russi che i serbi sperano, privilegiando la fratellanza slava rispetto a quella offerta dall’Unione europea, che si presenta divisa al suo interno davanti alla secessione del Kosovo. Perché Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia, che hanno nella regione i propri contingenti militari, sono favorevoli all’indipendenza appena proclamata. Mentre Spagna, Slovacchia e Cipro sono contrari, perché hanno al loro interno minoranze che potrebbero rivendicare riconoscimenti non diversi da quelli ottenuti dal Kosovo. Grecia, Romania e Bulgaria, hanno a loro volta simpatia per la Serbia a motivo della comune fede ortodossa. La Russia, da parte sua, appellandosi al diritto internazionale, non accetta il fatto compiuto e minaccia ritorsioni nei Balcani, appoggiando la richiesta serba di ottenere la secessione dal Kosovo della fascia di Mitrovica; e di ridiscutere la questione della Repubblica Srbska di Bosnia. Nel Caucaso, poi, potrebbe avanzare la richiesta di unificazione dell’Ossezia del sud a quella del nord e proclamare l’indipendenza dell’Abcazia, regioni della Georgia abitate in prevalenza da russi. Per non parlare del timore che le numerose repubbliche di fede islamica del nord del Caucaso avanzino le stesse pretese del Kosovo. Si potrebbe aprire dunque un nuovo contenzioso che non sarebbe facile da sciogliere in breve tempo e che metterebbe a dura prova al suo interno l’Unione europea, non ancora in grado di presentarsi con una politica estera condivisa da tutti i suoi membri. In questo momento si può solo sperare che, mantenendo aperta la porta dell’Unione alla Serbia, si arrivi a rimarginare in un nuovo contesto la ferita che si è prodotta nei Balcani. La sfida è aperta, e con essa la prospettiva di sfruttarla in positivo come una opportunità. Riconciliare a suo tempo Francia e Germania non è stata una sfida meno grande.