La seconda vita di Pia
La farmacia: odori chimici, grossi barattoli di medicine di ditte tedesche, francesi e italiane, voluminose confezioni di garze e cerotti, una foto in bianco e nero del primo padiglione dell’ospedale ancora in costruzione. E, dietro tutto ciò, Pia Fatica, molisana, classe 1929, ostetrica a Fontem, nella foresta equatoriale camerunese, dal marzo 1968, dopo un anno trascorso nell’ospedale di Shisong.
In Italia aveva la sua bella situazione professionale, quando lesse per caso in una rivista un articolo sull’avventura di alcuni medici italiani – focolarini – nella foresta, una joint-venture medica e soprattutto antropologica con il popolo bangwa. Un anno di aspettativa, il tempo di diventare baby-pensionata, e iniziò per lei una seconda vita.
«Dopo qualche mese piacevole trascorso a Shisong – mi racconta con la sua parlantina rapida e brusca (ma sincera, o quanto sincera!) –, dove avevo tutto, compreso un clima favoloso, scesi a Fontem con due colleghe della Misereor. Provai un forte sentimento di disagio. Perché quella gente viveva in un tale buco? “Per Dio, solo per lui”, dovetti rispondermi. Fui costretta perciò a mettermi anch’io davanti a lui. E siccome dinanzi al Signore si è nulla, mi è sembrato di dover cominciare da zero. Altro che reparto di maternità! C’erano le mamme, tantissime, le loro pance piene e una misera stanzetta per far tutto, talvolta persino per dormire. Ma c’era un’intensità straordinaria di vita cristiana».
Ormai Pia Fatica – mai nome mi è sembrato più appropriato, nel senso che questa donna dalle spalle curvate di fatica ne ha accumulata parecchia nella sua seconda vita – ha aperto le porte del cuore e della memoria: «I bambini morivano a grappolo – mi racconta – più per la mancanza di igiene che per altro: nascevano quasi tutti prematuri o immaturi. In soli tre anni di lavoro sodo, assieme ai medici dell’ospedale siamo riusciti a raggiungere gli standard normali di mortalità».
«Standard di quelle parti?», chiedo. «No – mi risponde offesa –, standard europei. Ma che credi! Tuttavia non siamo stati tanto noi a compiere il miracolo, quanto le donne, queste mamme straordinarie che hanno creduto in noi (forse più dei loro mariti) e ci hanno seguite passo dopo passo, perché vedevano che eravamo a loro disposizione notte e giorno».
Continua Pia: «Non ho mai criticato i miei amici bangwa, gli abitanti della valle di Fontem, anche quando ne avrei avuto i motivi per farlo. Ho cercato di capire le loro tradizioni e ho sempre trovato in esse qualcosa di buono. Ad esempio, non capivo come mai queste donne arrivassero in maternità, gravide ormai oltre il limite, con un sassolino in bocca, che immancabilmente sputavano davanti a me non appena si sdraiavano per il parto. Poi ho capito: il meccanico rincorrere con la lingua quella pietruccia nella bocca le obbligava a non rilassarsi un solo istante nelle ore di marcia verso l’ospedale, a non pensare alle doglie e quindi a non lasciarsi andare prima del tempo».
In quegli anni, le famiglie cristiane erano rare. Pia le riconosceva, perché i mariti accompagnavano le mogli, mentre nella poligamia i padri non solo non le accompagnavano, ma si disinteressavano di loro e dei figli, finché non riconoscevano la propria paternità nel corso di riti propiziatori particolari. Il cristianesimo era una reale promozione umana. Tuttavia, poco alla volta, anche chi non era cristiano, seguendo l’esempio di chi lo era, mutava certe sue abitudini. Lentamente.
«Non ho mai ceduto allo sconforto – riprende Pia –. Ho voluto una cappella accanto alla maternità, per poter pregare ogni volta che non potevo più fare nulla per le mie pazienti. Qualcosa di grande è avvenuto, perché nessuna donna è mai morta partorendo con me. Ne ricordo una, veniva da molto lontano, totalmente analfabeta. Mi sembrava troppo seria mentre sulla barella si avviava alla sala parto. Le chiesi cosa avesse: “Sto pensando a Quello che è lassù”, mi rispose. Non sapeva esprimere altrimenti la sua fede. L’ho portata in chiesa, dopo il parto, “per ringraziare proprio Quello che è lassù”.
«Con un’altra madre che aveva appena partorito – prosegue infaticabile Pia-senza-fatica – provavo un certo imbarazzo, perché il figlio era venuto al mondo con una gamba malformata. Come dirglielo? Cercavo di addolcire la pillola. Mi fece: “Miss, non ti preoccupare, sono felice, perché questo è mio figlio! Vive, e questo importa”. Quante cose belle mi hanno insegnato queste donne. Le porto tutte nel cuore. Talvolta per strada riconosco i bambini che ho fatto nascere. Non provo nostalgia, ma riconoscenza. Se sono ancora qui, è perché ho ricevuto tanto, più di quello che ho dato.
«Vuoi ridere? – continua –. Qui tra i bangwa il rosso è un colore tabù. Mentre a me mancava parecchio: tutto quaggiù era verde, verde e ancora verde. Così, quando costruii la mia prima casetta di fronte al college, volli dipingerne le imposte di rosso. Una mattina mi svegliai, e che vidi? Una serie di statue e idoli di pietra allineati dinanzi alla mia abitazione. Si fece avanti un uomo: “Miss, questo colore non è per lei. Le abbiamo portato queste statue contro gli spiriti maligni”».
Entra una donna, chiede qualche medicina. Si chiama Sophie Fobellah, è una delle infermiere tirate su da Pia. Approfittando della sua momentanea uscita dalla sala, mi dice: «Pia è stata una madre per tutte noi. Ha saputo crescerci, sgridarci, correggerci, amarci». Ha fatto venire alla luce più di 1.500 bambini.