La scuola romana che distingue fra ricchi e poveri

«È un problema degli adulti, i ragazzi non hanno barriere mentali»
Foto Cecilia Fabiano/LaPresse

«È una cosa fuori dal mondo che ci siano bambini di serie A e di serie B. Mio nipote è tranquillo, gioca con tutti, è un problema dei grandi, non dei piccoli. La scuola deve insegnare la vita oltre che lo studio». Sta forse in questa dichiarazione del nonno di uno degli studenti dell’Istituto Comprensivo di Via Trionfale a Roma − finito nella polemica per la questione della suddivisione degli alunni in plessi e classi in funzione del censo – il nocciolo del problema. L’osservazione di un dato di realtà che fa emergere ciò che spesso resta sepolto sotto pregiudizi, stereotipi, infrastrutture e storture mentali, proprie per lo più delle menti adulte. In effetti, fanno eco alcuni papà, «non ci sono problematiche di carattere etnico, c’è un amalgama fra ragazzi e genitori che funziona», e «i fatti smentiscono quello che è scritto nel sito».

La polemica e il fuoco mediatico che ne è scaturito – si ricorda – riguardano le modalità attraverso le quali l’istituto scolastico si presenta sul proprio sito web, indicando insieme all’articolazione in 4 plessi distinti, dislocati nei Municipi XIV e XV di Roma, anche la tipologia di “utenza” che frequenta gli stessi, con indicazione delle condizioni socioeconomiche e culturali dei ragazzi. Si spiega in un testo − poi ritirato su richiesta del sottosegretario all’Istruzione Giuseppe De Cristofaro, per il quale la distinzione fra gli alunni in base al rango socio-economico viola i valori della Costituzione − che «la sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana». Inoltre «Il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)».

Indicazioni che hanno suscitato l’indignazione di molti, fra genitori, operatori della scuola ed esponenti politici. Il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina ha detto di non condividere la scelta e ha osservato che «la scuola dovrebbe sempre operare per favorire l’inclusione». Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha definito intollerabile la scelta dell’Istituto e ha osservato che «discriminare e creare barriere è esattamente l’opposto di quello che dovrebbe essere un insegnamento corretto, responsabile e inclusivo». Nessuna solidarietà nemmeno dall’Associazione nazionale dei presidi di Roma e del Lazio, il cui presidente Mario Rusconi ha parlato di «forme di categorizzazioni superficiali e inutili» che «non sono di alcun interesse ai fini scolastici» e fanno pensare che la scuola voglia «indirizzare le famiglie sulla scelta delle diverse sedi in base a queste caratteristiche e una scuola, questo, non deve farlo».

Dal canto suo l’Istituto, dopo aver modificato il testo, si è difeso dicendo che «i dati riportati nella presentazione della scuola (…) sono da leggere come mera descrizione socio-economica del territorio, secondo le indicazioni del Miur» per la redazione del Piano dell’Offerta Formativa (POF), e che «l’istituto scolastico non ha mai posto in essere condotte discriminatorie nella ripartizione degli alunni nei diversi plessi o nelle diverse classi».

C’è da dire che in territori molto estesi come quelli afferenti all’istituto Trionfale, la presenza di gruppi diversi per appartenenza sociale, etnica e culturale è dato oggettivo e ineludibile, e che le scuole riflettono necessariamente questa provenienza. Ma il dato sociologico non giustifica la composizione di un “ritratto” – l’immagine dell’Istituto sul web – con accenti classisti.

Tra l’altro sarebbe interessante sapere se il suddetto POF cambia a seconda dei plessi, in quali plessi è più alto il numero delle iscrizioni e da dove effettivamente provengono i ragazzi che li frequentano. Ci si chiede se i genitori li scelgono in funzione della distanza da casa e lavoro, in base alla composizione delle classi, come indicate dall’istituto, o in base all’offerta formativa.

Abbassando i toni però, si può far emergere un altro dato di realtà. Tutti i genitori, quando scelgono la scuola per i propri figli, immaginano un luogo dove l’offerta formativa sia di buona qualità, un ambiente sano che favorisca un approccio costruttivo allo studio e un rapporto sereno con i docenti, dove i ragazzi vengono stimolati e formati nelle diverse discipline come nel loro essere cittadini responsabili di un mondo ormai globalizzato. Un luogo che li affianchi in quel delicato processo educativo per il quale non è mai esistita una “ricetta perfetta”. E proprio qui sta l’equivoco, se così vogliamo chiamarlo: la convinzione, ancora molto diffusa, anche fra molti formatori, che un contesto di questo tipo non si produca laddove c’è mescolanza e diversità, di tipo sociale, etnico e culturale. Come se gli ambienti chiusi, elitari, paradossalmente ghettizzanti, offrano maggiori garanzie di qualità e di successo sociale, secondo un corto circuito per il quale il confronto con la diversità è sminuente piuttosto che arricchente. Un pregiudizio duro a morire che tuttavia, spesso, sono gli stessi ragazzi a smentire.

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