La scoperta di Colombo si rinnova nella storia
La data del 12 ottobre ci fa pensare facilmente alla scoperta dell’America. Un giorno importante per il mondo, l’inizio dell’età moderna. E il cinema, appassionato osservatore e narratore dell’uomo, s’è messo all’opera da tempo per ricostruire e interpretare questo fondamentale crocevia della Storia. Forse la sequenza che meglio riassume il passaggio da un’epoca all’altra, quella che più velocemente racconta il cambiamento, è il finale del film Apocalypto di Mel Gibson, del 2006: la sequenza in cui all’orizzonte compaiono le navi europee mentre sulla spiaggia tre guerrieri pronti a uccidersi lasciano il combattimento alla vista delle imbarcazioni, come rapiti da qualcosa di imponente e pauroso, quasi presaghi che porterà loro via tutto.
Ed è proprio sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati, tra occupanti e nativi, tra presunti forti e presunti deboli, tra dominanti e dominati, tra ricchezza conquistata e umanità distrutta, che la scoperta e la conquista dell’America sono temi ancora drammaticamente attuali. Perché in quella storia partita con Cristoforo Colombo dalla Spagna specchiamo sì, la nostra fame di scoperta e conoscenza, di miglioramento e di crescita, ma anche la parte più pericolosa di noi, quella del calpestamento altrui, del non ascolto dell’altro, della sua uccisione in nome dei nostri desideri.
Il primo film del dopoguerra sul navigatore genovese è del 1949, Cristoforo Colombo: un lavoro illustrativo, scolastico, un po’ fantasioso, un film che, come la maggior parte di quelli su Colombo parlano di un uomo coraggioso, capace e tenace, ma non hanno troppa voglia di inquadrare le sue ombre. Nel primo dei due film celebrativi per i 500 anni dall’approdo nel nuovo continente, Cristoforo Colombo – La scoperta, la spettacolarizzazione divora la ricostruzione storica, mentre nel secondo, 1492, La conquista del paradiso, di Ridley Scott con Depardieu nei panni del marinaio genovese e Segourney Weaaver in quelli di Isabella di Castiglia, il protagonista Colombo – che si paragona ai grandi uomini capaci di trasformare il mondo – a un certo punto dice: «Le ricchezze non rendono l’uomo più felice, ma solo più occupato».
Ecco, qui nasce una riflessione sulla conquista dell’America, e su ogni nuovo mondo che scopriamo, geografico, tecnologico o umano che sia: il concetto di ricchezza. Quale ricchezza? E a quale prezzo? In che rapporto con il prossimo? In un altro film sul noto esploratore, Il segreto di Cristoforo Colombo, del 1951, il protagonista spiega che la ricchezza più importante importata dall’America è la conversione degli indigeni, aver portato il Vangelo nel mondo. Questa ricchezza è vera quando c’è un sincero desiderio di voler donare all’altro, allo straniero, la stessa bellezza in cui si crede, quando si vuole iniettare amore nella vita dello sconosciuto, quando gli si parla di un Dio che non vuole prendere da noi, ma offrire, donare se stesso per il nostro bene. Quando si desidera il vero bene del prossimo. Quando lo si riconosce come uomo identico a noi.
È la ricchezza dell’incontro, dell’armonia tra culture, della relazione umana, raccontata bene, insieme all’altra, quella materiale, nel film Mission di Roland Joffé, del 1986, dove Jeremy Irons interpreta Padre Gabriel: un gesuita che rischia la vita per portare la parola di Dio – e quindi amore – tra le popolazioni delle foreste tra Argentina e Brasile intorno alla metà del 700. Egli si batte, lotta (senza armi) e muore fisicamente per difendere i fragili, gli esposti, gli indifesi dai grandi interessi del denaro e del potere, dello sfruttamento già moderno della terra, dell’abuso dei suoi spazi e delle sue risorse. Con Padre Gabriel si schiera anche un ex trafficante di schiavi, il Rodrigo Mendoza di Robert De Niro, che in un solo personaggio racconta il rapporto coi nativi d’America in un doppio, opposto modo: l’annientamento prima, l’azzeramento totale di amore e il donarsi successivamente, l’entrare in una vera relazione con loro. Rodrigo si converte e la ricchezza che decide di servire diventa quella di un incontro in cui è fertile lo scambio, il sostegno, la reciprocità. Egli rinuncia alla ricerca di ricchezza materiale che produce sangue e che prende forza dalla convinzione (da parte dei più avanzati tecnologicamente) di essere superiori ad ogni cultura lontana dalla loro. La diversità viene associata alla debolezza, e per la fame di conquista la vita altrui viene negata. Questo aspetto dello sfruttamento del continente americano entra anche nella storica serie Rai del 1985, Cristoforo Colombo, non quella del 1968 di Vittorio Cottafavi, ma quella con Gabriel Byrne nei panni del protagonista, raccontato come personaggio estremamente positivo, sotto i cui occhi, però, avvengono abusi e crimini in nome del possesso e dell’arricchimento.
Un tema, questo, ovviamente centrale nei tanti western che raccontano gli indiani d’America non come selvaggi, ma come culture con comunità coese, che hanno un rapporto profondo con la terra e con la spiritualità, schiacciati, purtroppo, annientati, da società corrotte e alla deriva come quella occidentale di Balla coi lupi, dove il soldato interpretato da Kevin Kostner riconosce lentamente la bellezza del popolo Sioux – che non lotta per oscuri obiettivi politici, ma per sfamarsi e mantenere in vita la comunità – fino ad innamorarsene profondamente e a sceglierla. È un film bellissimo, Balla coi lupi, ultimo capitolo dei grandi Western al contrario, quelli dalla parte dei conquistati, film che fanno tornare a galla una contraddizione che da sempre accompagna la scoperta dell’America e con questa la fragilità umana che può trasformarsi in orrore, ieri come domani.
Forse anche per questo motivo il personaggio di Benigni in Non ci resta che piangere voleva a tutti i costi fermare Colombo. Certo, lui lo faceva perché sua sorella, la povera Gabriella, aveva sposato un americano che si era rivelato un poco di buono e l’aveva fatta soffire, ma magari, chissà, sotto sotto, dietro la motivazione personale nascondeva anche qualcos’altro…