La sconfitta di Dilma Rousseff e della democrazia brasiliana

Il Senato ha votato ampliamente a favore della destituzione definitiva della (ormai ex) presidente, che pure non è esente da colpe. Nuovo capo dello Stato Michel Temer, che da alleato si è trasformato in avversario. Il voto dei cittadini tradito da un processo al limite della legittimità
Dilma Rousseff

Dilma Rousseff non è più la presidente del Brasile. Su un totale di 81 senatori, alle 13,30 di mercoledì 31 agosto, in 61 hanno votato per la sua destituzione. Ne sarebbero bastati 54. Appena 20 i voti a suo favore. Si è consumata così l'ultima parte di un dramma iniziato quando un gruppo di tre avvocati denunciò manovre finanziarie realizzate per ridurre il rosso della gestione di governo. Le voci di spesa passavano da un anno all'altro, lasciando che le stesse fossero coperte dalle banche pur con l'aggiunta degli interessi. Un peccato certo, ma fino a quel momento veniale, commesso praticamente da gran parte dei governi succedutisi in questi anni.

 

Il problema è che la denuncia arrivò nelle mani del presidente della Camera dei deputati Eduardo Cunha, del PMDB, in quel momento alleato del governo della Rousseff, mentre la Commissione etica della Camera studiava se permettere o no che fossero avviate indagini su di lui dopo la scoperta di conti in Svizzera per 5 milioni di dollari, presumibilmente originati da tangenti pagate dalla compagnia petrolifera Petrobras. Rousseff non accettò di negoziare l'impunità di Cunha e, poche ore dopo che la commissione votò a favore delle indagini nei suoi confronti, Cunha mise in moto il processo di impeachment contro la presidente. Dunque una vendetta.

 

Ma si era messo in moto qualcosa di peggio. Dilma Rousseff era ormai un personaggio scomodo. Scomodo per la sua poca creatività e per ancor meno polso politico, incapace di condurre il governo tra i marosi di una crisi economica sempre più grave, la peggiore in 80 anni, la cui eco è stato amplificato ad arte dai media. Sono i gruppi che rispondono agli interessi industriali e finanziari che hanno tollerato il governo del Partido dos trabalhadores (Partito dei lavoratori) in epoca di vacche grasse. Un interesse che è poi coinciso con i settori politici collusi con la corruzione e impauriti dall'avanzare della magistratura che ha messo in carcere, e con condanne pesanti, una sessantina di leader politici e industriali. Una versione brasiliana di mani pulite, battezzata lava jato in portoghese, ossia autolavaggio.

 

E pare proprio che sia stato questo il motivo del progressivo voltafaccia degli alleati della Rousseff, che uno a uno si sono smarcati fino alla decisione di sospenderla, il 12 maggio scorso, in vista del processo di impeachment. Le sue funzioni sono state assunte dal vicepresidente Michel Temer, dello stesso partito di Cunha. Un politico inossidabile, sempre nel posto giusto e al momento giusto, pur senza aver mai vinto un'elezione. Ben sette dei ministri del suo governo ad interim erano indiziati di reato e lui stesso è indagato dalla magistratura. Tre di questi hanno dovuto rinunciare una volta pubblicate delle registrazioni nelle quali ammettono che la Rousseff è stata messa da parte per facilitare un "patto" per evitare che la Giustizia andasse fino in fondo nei vari casi di corruzione. Quello cioè che la presidente destituita non ha mai accettato.

 

Ed arriviamo così alla fatidica giornata di mercoledì Quando il voto definitivo del Senato ha rimandato a casa, non per ragioni giuridiche, ma per motivi strettamente politici, una presidente che ha commesso sicuramente degli errori, ma che è stata eletta legittimamente. Governerà al suo posto fino a gennaio 2019 un presidente che fa parte di un partito che era passato all'opposizione, appoggiato da partiti che si opponevano alla Rousseff e che ora sono maggioranza. Cioè, esattamente il contrario della volontà degli elettori. Un ordine sparso di gruppi ai quali Temer ha promesso di tutto pur di ottenere il loro voto in Senato. Nel mezzo, una recessione che viaggia al ritmo del 3 per cento annuo, con una inflazione intorno al 7 per cento, la disoccupazione all'11 e la necessità di riordinare i conti pubblici con tagli che, probabilmente, ridurranno la spesa sociale, il punto forte della riduzione della povertà negli ultimi dieci anni. Non ci sarà da meravigliarsi se, ottenuto l'obiettivo di scalzare la presidente, i media cominceranno a dipingere un panorama economico meno grigio.

 

Una vera e propria sconfitta per le istituzioni e, in definitiva per la democrazia. Una sconfitta in due tempi. La prima, perché qui nessuno è innocente, è quella procurata dallo stesso PT e dai suoi dirigenti che hanno creduto di poter governare pur in mezzo a una corruzione dilagante, anzi accettandone le regole. Un boomerang politico che oggi ha messo in carcere buona parte della cupola di questo partito. La seconda per questo tradimento politico condotto al solo scopo di conquistare il potere, nonostante l'elettorato avesse dato altra indicazione. I media e i mercati hanno potuto più del voto. Vuol dire che per preservare la salute della democrazia il voto da solo non basta.

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