La scomoda verità de “Li romani in Russia”

In scena a Roma la storia dei giovani della Divisione Torino, in uno degli episodi più drammatici della Seconda guerra mondiale
Simone Cristicchi

Giggi, Mimmo, Peppe, Nino, Nicola, Remo, sono un gruppo di giovanissimi soldati della Divisione Torino, spediti da Mussolini a morire nella famigerata campagna di Russia (1941-1943), l’episodio più drammatico vissuto dall’esercito italiano nella Seconda guerra mondiale. Dopo la partenza dalla caserma della Cecchignola, tra le false promesse sull’esito positivo delle operazioni, i treni del regime portano via una generazione sorridente, giovane, sicura di tornare, perché la propaganda fascista inganna sulla realtà della spedizione.
 
E la “passeggiata” si trasforma presto in tragedia: armi, abbigliamento e viveri insufficienti, inadeguati e ridicoli. Un esercito di straccioni e sbandati a cui rimangono solo fame, freddo, paura e il sapore della disfatta: partono 220 mila ragazzi; sulla strada del ritorno dalla Russia ne resteranno circa 90 mila. Elia Marcelli è tra i pochi reduci che riportano a casa il dolore, la rabbia e il dovere di testimoniare una scomoda verità. Tratto dal suo omonimo poema in versi, il monologo Li Romani in Russia descrive l’orrore della guerra attraverso la voce di chi l’ha vissuta in prima persona, come in un ideale incontro tra il mondo delle borgate di Pasolini e le opere di Rigoni Stern e Bedeschi.
 
A raccontarcelo è Simone Cristicchi, attore naturale e credibile, che, diretto da Alessandro Benvenuti, interpreta, con passione e coinvolgimento, una nutrita galleria di personaggi grotteschi, in un monologo corale in cui trovano spazio anche momenti ironici e divertenti. Passo passo Cristicchi dipana il racconto della spedizione: la retorica religiosa della guerra giusta, l’addio a Roma, il lungo viaggio a piedi, i combattimenti, l’arrivo del Generale Inverno, il nemico; la solidarietà del popolo russo e l’egoismo assoluto dei soldati che rende l’uomo simile alla bestia; il rispetto del proprio dovere, la ritirata, la disfatta; la morte. Tra un capitolo e l’altro, irrompe la voce stentorea e fiera dei proclami trionfalistici, tipica dei bollettini della radio di regime e simbolo di una disinformazione sulla quale anche all’epoca si fondava il consenso delle masse.
 
L’avventura di questi ragazzi è snocciolata con uno stile cinematografico, rispettando in maniera assoluta la verità della storia, alternando i registri stilistici, dal grottesco al lirico, dal narrativo al tragico, mantenendo costantemente la narrazione sul livello d’una immediata leggibilità. Li Romani in Russia (che ha debuttato a Mosca il 31 ottobre 2010, nell’ambito di SOLO, la rassegna internazionale del monologo al Teatro Na Strastnom) rientra in quel teatro civile molto frequentato, ma che risulta nuovo soprattutto per la forma del testo, per l’utilizzo di due elementi: la metrica dell’ottava classica (quella dei grandi poemi epici) e il dialetto romanesco (la lingua del Belli), che rende la narrazione ancora più schietta e veritiera.
 
Il risultato è un affresco epico che non omette particolari crudi e rimossi dalla storia ufficiale (il luogo comune degli italiani brava gente), e che diviene quanto mai attuale in un’epoca di bombe intelligenti e guerre umanitarie.
 
“Li romani in Russia. Racconto di una Guerra a Millanta mila Miglia”, regia Alessandro Benvenuti, adattamento teatrale prof. Marcello Teodonio, musiche e sonorizzazioni Gabriele Ortenzi/Areamag, luci Danilo Facco, costumi Sara Quattrini. Roma, Teatro della Cometa, fino al primo aprile. In tournèe
 

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