La scommessa dell’Euro

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Uno dei temi ricorrenti della appena conclusa campagna elettorale è stato il gettare sull’euro la colpa delle accresciute ristrettezze dei molti italiani che vivono di stipendio. È indubbio che il passare non controllato all’euro ha permesso un enorme spostamento di risorse da chi riceveva uno stipendio in euro pari al valore in lire diviso per 1936.27, a chi approfittando del fatto che un euro veniva invece erroneamente accomunato alle 1000 lire, aumentava senza ragione i prezzi, spesso anche evadendo le imposte su questi maggiori guadagni. A questo evento che ormai è storia, ma del quale ancora si pagano le conseguenze, occorrerebbe porre rimedio creando maggiore concorrenza e facendo pagare le imposte a chi le evade. Ma per l’Italia, ancora si domanda qualcuno, è stato positivo o negativo entrare nella moneta unica europea? Fino agli anni Settanta la Federal Reserve degli Stati Uniti garantiva che avrebbe consegnato, contro 35 dollari in carta moneta un’oncia – circa 31 grammi – di oro fino; le altre monete forti garantivano un cambio fisso con il dollaro, quindi anche esse erano convertibili in oro. Allora il valore del dollaro era quindi garantito dal valore delle riserve d’oro degli Stati Uniti, ma la guerra in Vietnam e l’impennata del prezzo del petrolio impegnavano questo paese oltre le sue riserve auree e il presidente Nixon decise semplicemente di non garantire più la convertibilità. Anche se per comprare un’oncia d’oro oggi non ci vogliono più 35 ma oltre 400 dollari, il dollaro è rimasto la moneta rifugio per i risparmiatori di tutto il mondo, perché è la moneta della prima nazione a livello tecnologico ed industriale, ed anche perché, allora, non vi erano alternative. Una moneta alternativa è poi nata, l’euro: espressione di una comunità di nazioni di capacità tecnologiche ed industriali equivalenti agli Stati Uniti: la garanzia della sua stabilità stava nell’impegno assunto dagli Stati che con il trattato di Maastricht l’avevano fatta propria, a contenere le uscite non oltre il 3 per cento delle loro entrate ed a ridurre i debiti pregressi. Per gli Stati europei il condividere una moneta affidabile presentava diversi vantaggi: era più semplice per le aziende ampliare i mercati, ed una moneta affidabile era capace di attirare i capitali altrui con tassi di interesse modesti, mettendo gli europei in condizione di ottenere finanziamenti e mutui a tasso contenuto, con vantaggio per l’economia e per gli investimenti produttivi. Per l’Italia, poi, l’euro permetteva di finanziare a basso costo l’enorme debito pubblico e quindi di trovarsi in condizione di ridurlo: si trattava di una grossa opportunità, che richiedeva notevoli sacrifici, perché per essere ammessi a far parte della moneta unica occorreva dimostrare di essere in grado di riequilibrare le entrate e le uscite statali nei limiti richiesti. Per riuscirci si era chiesto agli italiani di versare una particolare imposta, che negli anni successivi veniva restituita. Questo sforzo iniziale richiesto per ottenere l’ammissione non era però l’unico impegno: una volta deciso di far parte di un gruppo di nazioni la cui economia funziona con una certa efficienza, non si può poi permettere alla propria economia di marciare con una efficienza inferiore ed essere quindi obbligati, per far quadrare i conti aziendali, a far crescere i prezzi più della concorrenza, come avveniva in precedenza. Fino ad allora, per compensare il fatto che per la poca ricerca ed innovazione tecnologica col tempo i suoi prodotti divenivano più costosi di quelli esteri, l’Italia era solita ogni qualche anno svalutare la lira: questo in moneta estera significava ridurre i nostri prezzi. Si tornava competitivi, ma poi per trovare chi acquistasse i nostri titoli di stato era necessario offrire tassi di interesse elevati che ricadevano anche sulle nostre imprese, avvitando il Paese in una spirale negativa: queste cattive abitudini avevano portato lo stato italiano ad un indebitamento enorme, superiore all’intero prodotto lordo di un anno. Aderendo all’euro l’Italia era consapevole di impegnarsi ad allinearsi alla produttività degli altri Paesi europei. Ma per ottenere questo risultato, rimanendo nei parametri di Maastricht senza aumentare le entrate, cioè le imposte, si dovevano evitare sprechi ed orientare la spesa verso settori più strategici: ridurre le tasse sul lavoro, incoraggiare la ricerca e l’innovazione, fornire alle aziende ed ai cittadini servizi più efficienti; ed anche aiutare le aziende italiane a competere ed offrire i propri prodotti a livello mondiale, perché non basta produrre innovazione, occorre anche venderle. Purtroppo negli ultimi anni la spesa pubblica è invece aumentata senza significative riduzioni del costo del lavoro, senza maggiore aiuto alla ricerca, alla innovazione ed alla internazionalizzazione: anzi si sono ridotti i finanziamenti a questi settori. Ci si è invece affidati alla teoria economica del lato dell’offerta secondo la quale se si lasciano più soldi ai ricchi, questi li investono in nuove attività produttive, con vantaggio di tutti, anche delle entrate statali: una teoria che aveva affascinato trenta anni fa Ronald Reagan e i suoi successori repubblicani, ma che non si è mai in alcun caso verificata valida. Così si sono ridotte le imposte alle classi più abbienti, cercando di ricuperare risorse con vari condoni che hanno incoraggiato ancor più ad evadere ed hanno anche reso possibile la legalizzazione con poca spesa del possesso di capitali accumulati all’estero, non sempre in modo pulito. Che anche per l’Italia la teoria del lato dell’offerta non abbia funzionato, lo dice la mancata ripresa economica in un momento in cui il mondo intero è in grande crescita; lo dice l’aumento anziché la diminuzione del debito pubblico, lo dice il superamento dei parametri di Maastricht che ha attirato l’attenzione della Commissione europea sui nostri conti. I nostri governanti, non parti- colarmente spinti da spirito europeista, anziché meditare sui fallimenti delle loro strategie, hanno iniziato a dimostrarsi insofferenti delle regole di Maastricht ed a dare all’euro colpe che non ha. L’Italia poteva rimanere fuori dall’euro, affidando la propria crescita come in passato all’alternanza tra alti tassi di interesse e successive svalutazioni, ma a spese di un ulteriore aumento del già enorme debito pubblico e di spese per interessi sui titoli di stato sempre crescenti, necessarie ad attirare sottoscrittori verso titoli pubblici sempre più rischiosi: avviandosi così sulla deriva dei tango bond, purtroppo ben noti a molti nostri risparmiatori. Se c’è un Paese che deve ringraziare di essere stato ammesso nell’ambito dell’euro è proprio l’Italia, che più di altri ha beneficiato di esso: se avessimo ancora la lira, per vendere i nostri Bot e Cct lo Stato dovrebbe offrire almeno dieci punti di più del presente e per pagare questi interessi senza aumentare le imposte di 300 mila miliardi di lire all’anno, si dovrebbe ad esempio tagliare ogni spesa per la sanità, oppure lasciar crescere il debito avviandosi sulla china dell’insolvenza, come è successo all’Argentina. L’ i n s o lven z a dello Stato non è un fatto teorico, viene pagata a caro prezzo dai cittadini: in Argentina, buona parte della classe media del paese si è ritrovata da un giorno all’altro con i propri risparmi svalutati e bloccati in banca, a sperimentare un tenore di vita al di sotto della soglia di povertà. Quindi gli italiani devono dire grazie all’euro: un grazie ai governanti che ci hanno permesso di entrare nell’euro ed anche un grazie ai Paesi che ci hanno accolto malgrado le nostre poco raccomandabili referenze riguardo alla serietà nella gestione dell’economia. Adesso però, non potendo più svalutare, a meno di non uscire dall’euro ricadendo nella spirale negativa del passato, dobbiamo fare in modo di non farci distanziare: altri Paesi sono entrati nella Comunità europea ed alcuni si apprestano a fare il salto sul treno dell’euro. Occorre aiutarli in questo passo che richiede un impegno costante di buona ed illuminata amministrazione: non possiamo certo oggi pretendere che siano gli altri Paesi a provvedere per noi, quasi fossimo una palla al piede del progresso europeo.

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