La scienza del futuro

L'ottimismo sulla futurologia ha lasciato il posto ad un realismo inquietante. Eppure il futuro è aperto. Lo spiega il nuovo libro di Roberto Paura
(AP Photo/Eranga Jayawardena)

Pensare al futuro è estremamente importante. Ce ne accorgiamo specialmente in ogni tempo di crisi, di qualunque origine essa sia: ambientale, pandemica, geopolitica… Cercare di immaginare gli eventi in un orizzonte di lungo periodo ci permette di fare le giuste scelte nel presente ed evitare rischi nel futuro. Ma su quali basi fondiamo le nostre previsioni? Attraverso quali criteri orientiamo la direzione da prendere? Siamo veramente capaci di costruire il futuro che vorremmo?

Occupare il futuro (Codice Edizioni 2022) è l’ultimo libro di Roberto Paura (giornalista, scrittore, presidente del centro di ricerca Italian Institute for the Future [1] e cofondatore dell’Associazione Futuristi Italiani): parla dei metodi che ci permettono di studiare il futuro, ma non solo. Parla di noi, del mondo che abbiamo costruito e di come pensare quello che abiteremo.

La riflessione dell’autore nasce da una constatazione: abbiamo un problema con il futuro, non riusciamo più a immaginarlo come si dovrebbe perché l’interesse (economico o politico) di pochi influisce sulle scelte di molti, e ciò mette in scacco la nostra capacità di visione, relegandoci ad un presentismo dal quale si fatica ad uscire.

In altre parole: il concetto di “previsione” è apparso piuttosto come sinonimo di “colonizzazione” del futuro, e questo ha portato ad una forma di colonizzazione del presente, condizionando le nostre scelte su vari fronti: dal destino della biosfera terrestre ai processi di digitalizzazione della realtà, dall’avvento dell’intelligenza artificiale alla diffusione della disoccupazione tecnologica, dal problema demografico agli scenari dell’espansione spaziale. Sono temi che riguardano ciò che verrà e ciò che sta già avvenendo.

Da qui una serie di domande: La storia e le dinamiche sociali sono predeterminabili attraverso modelli e leggi deterministiche? Il nostro futuro può essere predeterminato da un algoritmo? La fede cieca nella scienza, nelle tecnologie e nei sistemi cibernetici, può darci qualche sicurezza per definire ineluttabilmente ciò che saremo? In altre parole: è possibile una “scienza del futuro” senza ricadere nel sogno positivista di ridurre anche gli esseri umani ad equazioni matematiche?

L’ambizione di riuscire a prevedere il futuro attraverso leggi deterministiche ha da sempre influenzato economisti, politologi, scienziati, ma l’ottimismo sulla futurologia ha via via lasciato il posto ad un realismo inquietante; un esempio su tutti: la corsa agli armamenti come frutto delle elaborazioni sui possibili scenari geopolitici del secondo dopoguerra.

Quello fra previsione e controllo è un binomio che Roberto Paura intende spezzare a favore di una visione in cui il futuro non percorre un’unica traiettoria – spesso raffigurata con immagini cupe e distopiche del mondo che verrà -, ma si apre in modo plurale verso principi spesso dimenticati: in particolare la speranza e la responsabilità.

Roberto Paura ricostruisce il complesso mosaico della futurologia del ‘900, senza però mai perdere il filo rosso che lega fra loro la tesi iniziale e la conclusione; un filo che ci porta a trovare la strada per tornare ad immaginare il mondo che verrà e ad agire in vista di esso. Una capacità che oggi ci viene sottratta a causa del potere di visioni parziali.

Il libro è diviso in tre parti, o meglio: tre passi che portano il lettore a comprendere il passaggio dalla futurologia di stampo positivista al paradigma dei futures studies: cioè studi sul futuro che escono dall’imbuto delle tecnocrazie e si aprono ad una visione plurale, più articolata e umanizzante, in grado di «restituirci la capacità di immaginare il futuro e aspirare al cambiamento».

Primo passo: “occuparsi del futuro”. Qui l’autore ricostruisce genesi, figure e scenari della futurologia, dall’occhio dei suoi protagonisti. È una rilettura della crisi dell’epoca moderna e dell’avvento della post-modernità, vista da una prospettiva particolare: quella dell’era della tecnica nel suo attuarsi.

Secondo passo: “preoccuparsi del futuro”. Sono trattate qui le problematiche globali che i futures studies hanno affrontato nel corso degli anni, dalle simulazioni sul sistema-mondo agli studi più recenti sui rischi esistenziali dell’umanità, con la presa di coscienza che la crisi attuale ha il suo centro nella persona umana e i suoi valori.

Terzo passo: “occupare il futuro”. La terza parte apre le porte a quei princìpi in grado di indicare le vie di uscita dalle tecno-utopie e dal paradigma della futurologia classica per approdare a quello della anticipazione: una risposta diretta al concetto di colonizzazione del futuro. Il concetto di anticipazione attinge dalla “teologia della speranza” (1970) del teologo Jürgen Moltmann: una visione trascendente che però non si rifugia nel trascendentalismo e punta all’azione nel presente.

I concetti previsionali si applicano così in un’ottica nuova, quella del futuro preferibile (e non quello probabile o semplicemente plausibile): «L’anticipazione non punta alla previsione, quanto alla capacità di anticipare possibili scenari futuri distinguendo, tra essi, quello che si aspira a realizzare, e agendo nel presente in vista di quello scenario, che diventa “orizzonte di aspettativa”». Una prospettiva che è poi diventata patrimonio globale grazie al progetto di futures literacy (ossia l’alfabetizzazione ai futuri) promosso dall’Unesco nel 2014, che rispecchia propriamente il “pensiero anticipatorio” di Moltmann.

Oltre a fare emergere il valore dell’interdisciplinarità come elemento-chiave per una corretta implementazione dei futures studies, Roberto Paura mette in risalto anche un altro tassello determinante, quello della trans-generazionalità, cioè il particolare legame tra generazioni che si esprime non solo in senso futuro verso quelli che devono ancora nascere, ma soprattutto in senso presente fra le generazioni attualmente viventi.

Sembra infatti esserci un legame profondo fra l’assenza di un pensiero di lungo termine e la perdita della solidarietà fra generazioni. Ciò suggerisce che ogni previsione (qualitativa o quantitativa) perde di senso se viene tralasciata la componente umana. Su questo fronte spicca, fra gli altri, il pensiero della filosofa Simone Weil (uno dei riferimenti intellettuali del nostro Autore) che già prefigurava una società algoritmica disancorata dalla realtà, ma lasciava aperta la speranza di «intravedere una trasformazione tecnica che apra la via ad un’altra civiltà». Una affermazione che chiude il cerchio narrativo del saggio.

Roberto Paura conferma in questo saggio le sue doti storiografiche e analitiche, accompagnando il lettore a comprendere soprattutto che «la decolonizzazione del futuro non richiede né transizioni né rivoluzioni, ma conversioni». Si tratta di gettare un ponte tra il futuro che vorremmo e il presente che viviamo, in modo che l’avvenire possa essere riaperto e reso «nuovamente pensabile, agibile, trasformabile». Il compito dei future studies è proprio questo: imparare a sostituire l’idea di un futuro a senso unico con nuove visioni che siano frutto di una rinnovata capacità di immaginazione. Una capacità per la quale il fattore umano è qualcosa che va ben al di là di una semplice variabile in un sistema di equazioni.

 

[1] Fondato nel 2013, l’Italian Institute for the Future (IIF) è un’organizzazione no-profit di ricerca, formazione, consulenza e divulgazione nel settore dei futures studies. Dal 2018 è membro istituzionale della World Futures Studies Federationwww.instituteforthefuture.it

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