La scienza degli addii
La scienza degli addii di Elisabetta Rasy prende le mosse da due figure storiche sullo sfondo della Russia sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile: i coniugi Mandel’s?tam. Lui, Osip, poeta anticonformista tra i più grandi del Novecento, morto in un gulag staliniano. Lei, Nadez?da Chazina, ebrea, divenuta la memoria vivente dell’opera poetica del marito. Un libro intenso, trascinante, che ci restituisce tutta un’epoca. L’incontro con questa scrittrice di origini napoletane avviene nella sua casa romana. Cosa l’ha spinta a scrivere una storia così particolare? Una quindicina di anni fa sono stata profondamente colpita dalla lettura delle Memorie (sia pure parziali) di Nadez?da, una delle fonti irrinunciabili per chiunque voglia capire l’epoca staliniana. Da quel momento ho cominciato a leggere tutto quanto riuscivo a trovare su suo marito. Ma ho esitato a lungo prima di mettermi a scrivere, in quanto non sono una slavista e non conosco il russo. Cosa mi ha fatto decidere? Innanzi tutto il fatto che la loro è una straordinaria storia d’amore coniugale, l’amore più vero e più difficile. Poi il coraggio di queste due persone miti, disarmate, di fronte alle piccole crudeltà della vita come di fronte alle grandi crudeltà della storia. Era una coppia attraversata da crisi, ma che ha saputo mantenersi fedele al patto d’amore e resistere, al tempo stesso, all’obbrobrio della dittatura. Mi ha toccato anche l’estrema loro passione per la poesia, che è la parola più libera (come dice molto bene Josif Brodskij parlando del canto libero che si oppone al potere). A furia di conviverci, questi personaggi sono diventati protagonisti di una storia che riguardava anche me personalmente; per far sì che in qualche modo anche altri fossero in loro compagnia come me, ho voluto scrivere questo libro. Non potevo non scriverlo. Quali difficoltà ha incontrato nel costruire questa storia? Innanzi tutto quella di rintracciare in italiano l’opera completa di Mandel’s?tam, sia in poesia che in prosa. Ho dovuto perciò ricorrere a testi in inglese e francese, compresa l’edizione completa delle Memorie di Nadez?da. E poi ricostruire il loro mondo, quello dei poeti, letterati e artisti russi tra gli inizi del secolo e la fine degli anni Trenta. Ma i saggi storici non bastavano. Quindi ho cercato gli epistolari, i diari, le memorie… E qui ho attinto all’opera di Anna Achmàtova, di Marina Cvetàeva, ma anche di altri autori. È paradossale, ma a quella dittatura terribile faceva riscontro una generazione fuori del comune per intelletto, cultura, talenti artistici. Non è stato facile muovermi tra le tenebre della storia e la luce di questi personaggi. Per di più questa vicenda io potevo raccontarla solo se un po’ la rivivevo, se sentivo un vero legame con queste figure e con questo mondo. Per cui quando ho finito il libro ero sopraffatta dallo sforzo psicologico di un viaggio così lungo e complesso. E dopo? Ero incerta su come sarebbe stato accolto in Italia, dove non mi pare ci sia una grande tradizione di conoscenza di quel periodo storico e dei suoi autori. Invece il libro, uscito a fine aprile, ha avuto già una seconda edizione in tempi rapidi. Ho anche ricevuto tantissimi consensi da parte dei lettori. Di qui la felice sorpresa nel costatare che c’è chi sa apprezzare un’opera anche se non ha gli ingredienti di tanti odierni best seller: violenza gratuita, erotismo, facili ideologie…. Per documentarsi, si è recata anche sui luoghi del romanzo? Ho preferito di no, perché quel mondo non esiste più. Quindi ho dovuto lavorare con l’immaginazione, cercando di risalire dalle descrizioni. E avvalendomi anche di una documentazione visiva d’epoca. I suoi lettori non immaginano di leggere un’intera biblioteca… Beh, spero proprio di no. Non volevo scrivere né una biografia, né un saggio letterario, ma un racconto. Per cui, dopo aver riempito quaderni su quaderni, mi sono sforzata di tradurre in scrittura solo quanto avevo trattenuto, come quando durante un viaggio una cosa ti colpisce e un’altra no, qualche persona entra nella tua vita e qualcun’altra ti rimane estranea. Scartando invece quanto era riferimento dotto. Ma quanto c’è di storico e quanto di licenza romanzesca? Ho cercato di ricostruire frammento dopo frammento la vita di questi personaggi. E laddove non ci sono riuscita, non sono entrata. Non ho proiettato su di loro dei sentimenti miei: li ho desunti dai carteggi e dalle testimonianze a mia disposizione, ma non ho inventato nulla. Le licenze ci sono piuttosto nella scelta di una forma narrativa piana (mentre avrei potuto utilizzare uno stile più drammatico o più dialoghi). Quale dei due protagonisti sente di più? Come dicevo, l’incontro iniziale è stato con Nadez?da, questa creatura così determinata che, non potendo salvare il marito, vuole salvarne in qualche modo l’essenza che è la poesia, copiando, conservando, nascondendo i suoi versi; e che quando più nessun nascondiglio le appare sicuro, incomincia a impararli a memoria, diventando lei stessa il suo corpus poetico. Nadez?da fa questo non perché sia una donna sottomessa, ma per amore del compagno che si è scelto e per amore della poesia. Questa grandezza femminile mi ha affascinato. In un secondo tempo, inoltrandomi nella lettura di Osip, mi sono innamorata anche di lui. Oggi forse non sono frequenti in letteratura storie di amore coniugale: perché di questo tratta il suo romanzo… O lo vede di più come un libro sul potere sovversivo della poesia?… Direi che entrambi questi temi sono presenti in egual misura. C’è da parte mia la contemplazione incantata della potenza di questo loro amore, in virtù del quale anche nei momenti più cupi e più tremendi riuscivano ad amare la vita e ad assaporarne le gioie. E d’altra parte, dato il particolare momento storico, era inevitabile per Osip venir considerato un sovversivo, anche se si definiva un poeta e basta. Ma proprio il non piegarsi del poeta per essere sé stesso era un gesto di una sovversione inaudita. E lui, un uomo malato, emotivo, sbadato, goffo, ha avuto questo coraggio. Lei lo ha definito come l’esule perfetto. Potrebbe spiegare? Quello dell’esilio e dell’emarginazione è un altro tema forte che attraversa il libro, e che io sento moltissimo. In fondo per me, bambina trasferita a Roma, la città in cui ero cresciuta, Napoli, rappre- sentava un po’ la patria perduta. Tornando ad Osip, quando insieme a Nadez?da vive di accattonaggio nel confino di Voronez?, viene da chiedersi quale peggiore esilio esista di chi è esule nella propria patria. Lontano, potrà sempre pensare al suo paese come al focolare da cui la vita l’ha crudelmente separato: per di più lui era stato reso esule persino nella propria lingua, perché non gli permettevano di pubblicare (già nel ’23-24 erano cominciate le difficoltà, diventate definitive dagli anni Trenta in poi). Questo mi è sembrato veramente l’esilio perfetto. Penso a un quadro di Chagall, dove un lui trattiene per mano una lei fluttuante in aria… Nella sua storia, invece, sembra piuttosto Nadez?da quella con i piedi per terra … In effetti i Mandel’s?tam somigliano molto a certi personaggi chagalliani che svolazzano sui tetti. Ma dei due la più concreta è Nadez ?da in quanto donna, più legata alla madre terra. È lei, fra l’altro, a sorreggere il marito ridotto ad un mucchietto d’ossa tremanti quando, ormai vecchi, dopo l’esilio di Voronez?, stanno attraversando un ponte sul Volga. Forse però è ancora Osip che la porta per mano con una forza interiore che nasce dalla sua immensa fiducia nella bellezza e nella bontà dell’esistenza. Lei ha parlato di memoria che salva. Sarebbe, questa sul potere della memoria, un’altra parola-chiave del suo racconto? Vede, da noi Osip Mandel’s?tam è conosciuto solo da una minoranza. È perché tutte le dittature, dopo aver espropriato della loro umanità i soggetti ritenuti pericolosi, fatalmente gliela tolgono anche da morti, riducendo la loro memoria postuma a qualche dato di documento poliziesco. Se questo è grave per ogni essere umano, è gravissimo per un poeta che rappresenta una voce per tutta l’umanità. Molti mi hanno chiesto cos’è la scienza degli addii (da Ho imparato la scienza degli addii,/nel piangere notturno, a testa nuda: versi che Osip recita a Nadez?da nel loro primo incontro). Beh, è la memoria. È vero che dei poeti rimangono i versi, ma le vite, senza chi le ricordi, andrebbero perse per sempre. Ed è stato appunto un lavoro di memoria il mio, stimolato da quello – straordinario – fatto da Nadez?da, che a me appare come una sorta di Mnemosine, la divinità della memoria. Nel romanzo, nonostante la tragicità degli eventi, non mancano momenti di humor… Sbaglio, o si è divertita anche lei un po’? È vero: entrambi i Mandel’s?tam avevano anche il dono dell’ironia. Non un’ironia corrosiva, ma un modo di guardare in modo benevolo l’esistenza. Le faccio un esempio. Perseguitato per una storia assolutamente falsa di traduzioni, e dopo essere rimasto per anni senza scrivere poesie, a un certo punto Osip ne compone una per sua moglie, chiamandola tovarisc, cioè compagno. Come a dire – ed è un’ironica frecciata ai seguaci di Stalin -: in realtà io ho un unico vero compagno, mia moglie. Osip poi faceva continuamente degli scherzi ai suoi amici, come se l’humor fosse un dono del cielo. È stato inevitabile rimanerne un po’ contagiata io pure.