La scelta di Francesco
La visita al Giordano – poco dopo si accosterà alla riva del fiume per benedirne le acque come aveva fatto cinquant’anni prima Paolo VI – appare come una pausa bucolica dopo una sequenza di incontri impegnativi. Ma non lo è. Con la fronte bagnata dal Giordano, Francesco ha intenzione di iniziare una risalita che assumerà significati crescenti nei due giorni successivi. È da qui, pertanto, dal contatto con questo modesto corso d’acqua, che va riavvolto il nastro del programma della giornata per andare alla ricerca di una lettura non legata all’ordinata sequenza dei fatti.
Francesco lascia il Giordano, ma vi resta fedele. Non si dirige verso la capitale Amman, dove in nunziatura trascorrerà la notte. La missione incomincia ora. Ora che si reca là vicino, verso la chiesa latina ancora in costruzione – quasi una metafora di quanto c’è da fare –, per incontrare, come da programma, seicento rappresentanti dei popoli della sofferenza. Il papa si trova davanti rifugiati iracheni e siriani, in fuga da guerre senza quartiere, e un gruppo di giovani disabili.
«Ho voluto fortemente incontrare tutti voi – esordisce –. Siamo profondamente toccati dai drammi e dalle ferite del nostro tempo, in modo speciale da quelle provocate dai conflitti ancora aperti in Medio Oriente». Non si limita a chinarsi sulle loro piaghe fisiche e interiori. Piuttosto li solleva e, forte delle loro storie ascoltate, li propone come fondamento di ogni società, di ogni politica e di ogni economia che vogliono essere all’avanguardia e offrire a tutti l’opportunità di contare qualcosa. Solo dagli occhi degli ultimi, degli emarginati, dei non produttivi si vede bene, secondo Bergoglio, la rotta che il mondo deve seguire per evitare un’implosione sociale prima ancora che economica e ambientale.
L’opzione preferenziale per gli ultimi non è una novità per Francesco, visto il nome che si è scelto. Ma qui la logica che lo guida si amplifica. Non è più un afflato pastorale, o almeno non solo pastorale. Non è nemmeno un imperativo di un illuminato capo religioso. Il papa dà voce alle legittime, basilari istanze di un mondo in cui i presunti “grandi” della Terra non svettano per autorevolezza, né per capacità di farsi interpreti delle esigenze di giustizia. Qui la prossimità geografica rende tutto terribilmente incalzante, urgente e drammatico. La spietata guerra fratricida in Siria, che dura da tre anni, è a due passi, così come l’Iraq, oramai ferocemente inospitale per i cristiani e per quanti non assecondano la costruzione del sedicente Califfato islamista. Il contesto geopolitico appare emblematico dei troppi scenari bellici che incendiano e ammorbano il pianeta e finiscono per uccidere masse di civili (quante donne e minori!) poveri, inermi, estranei alle lotte di potere.
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Mettersi dalla parte dei poveri, degli ultimi, degli emarginati costituisce sempre una scelta nobile e un gesto di grande levatura. Ma stare con gli scartati non porta benefici né politici, né mediatici. Papa Francesco non ha un secondo “mandato presidenziale” da conquistare, né cerca visibilità. Lo interpellano «le strutture di peccato», direbbe Wojtyła, che schiavizzano l’uomo contemporaneo.
«Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica», afferma con forza Bergoglio nel suo manifesto programmatico che è la Evangelii Gaudium. Dal Vangelo scaturisce l’impegno a favorire pienamente l’inclusione sociale dei poveri. E il papa ne tira le conseguenze operative personali e collettive: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società» (Evangelii Gaudium 187). Francesco non si accontenta di un’enunciazione generale, ma indica a tutti obbiettivi precisi, concreti e immediati. Non è sufficiente pensare ad assicurare cibo o un decoroso sostentamento a chi ne è sprovvisto, perché inclusione sociale significa anche garantire in modo stabile «educazione, accesso all’assistenza sanitaria e specialmente lavoro».
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La calorosa accoglienza, la vicinanza alla Grotta, la singolarità della scelta della liturgia – quella della Solennità della Natività, destinata alla messa di Natale – invitano a un rito all’insegna della tenerezza. Lo stesso fondale dietro l’altare invita lo sguardo al sentimento buono del presepe. L’inconsueta gigantesca raffigurazione ritrae Gesù Bambino nella Grotta, ma è ricca di simbolismi. I re magi hanno le sembianze dei tre pontefici che hanno visitato la Terra Santa, cioè Montini, Wojtyła e Ratzinger. San Francesco, protettore dei luoghi santi, è ritratto con il volto del papa argentino. Uno stormo di colombe bianche esprime il desiderio di pace che i quattro sono venuti a deporre ai piedi della mangiatoia, mentre san Giuseppe ha in testa la kefiah bianca e nera, gli stessi colori dei panni che avvolgono il bambinello. Insomma, tutto anticipa un rito rasserenante e una preghiera di buoni sentimenti.
E con tali espressioni papa Francesco inizia la sua omelia. Sa che è il suo unico discorso a una folla in Palestina e sa che verrà trasmesso da tante televisioni. È consapevole che l’occasione non si ripeterà. In questa piazza talune parole assumono un significato dirompente. Bambino, ad esempio. Anzi, bambini. E ne fa un discorso di rilevante spessore politico che smaschera le responsabilità dei poteri palesi e occulti e svela l’ipocrisia delle società avanzate.
L’angelo dice ai pastori (non ai notabili o ai dottori della Legge del tempo) che è stato dato da Dio un segno per loro, quale prova della sua presenza nel mondo e quale inizio del tempo nuovo della salvezza: troveranno un bambino. Solo un bambino. Un soggetto inerme, indifeso e, allora (ma vale anche per il presente in tante aree geografiche), senza alcun diritto. «Anche oggi i bambini sono un segno – costata Francesco –. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno “diagnostico” per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo intero».
Chiarisce nel suo discorso in italiano, subito tradotto in arabo: «Quando i bambini sono accolti, amati, custoditi, tutelati, la famiglia è sana, la società migliore, il mondo è più umano». Ma quando? Ma quanto? Il papa si fa pressante: «In questo mondo che ha sviluppato le tecnologie più sofisticate, ci sono ancora tanti bambini in condizioni disumane, che vivono ai margini della società, nelle periferie delle grandi città o nelle zone rurali». Ancora: «Troppi bambini oggi sono profughi, rifugiati, a volte affondati nei mari, specialmente nelle acque del Mediterraneo. Di tutto questo noi ci vergogniamo oggi davanti a Dio che si è fatto bambino».
Da Paolo Lòriga, Francesco e Gerusalemme, sfida religiosa e politica (Città Nuova, 2014)