La scappatella del cammello
La mia simpatia per i cammelli ha conosciuto un decisivo incremento durante quest’estate. In primo luogo, per il sollievo provato durante un recente soggiorno a Gerusalemme, quando ho visto genuflettere le ginocchia di uno splendido esemplare di cammello e restituirmi, dall’alto della sua possente grandezza, la mia figlia più piccola temerariamente salita sulla groppa. Ero così felice nel constatare che il cammello non se ne era fuggito portandola via con sé, che l’ho accarezzato con franca e materna riconoscenza. Gli amici di Gerusalemme ancora ridono.
È stata però la lettura di Arturo Paoli, uomo e monaco dalla parte degli ultimi, a convincermi che i cammelli hanno proprio qualcosa da insegnarci. Nel suo libro La pazienza del nulla (Chiare lettere, 2012) Paoli, descrivendo la sua permanenza nel deserto al seguito delle carovane di nomadi, offre dei cammelli un racconto suggestivo. Ricorda come lungo il tragitto tutte le mattine all’alba un cammello a turno fuggisse lontano, sottraendosi al proprio lavoro, nell’indifferenza generale e senza che nessuno cercasse di inseguirlo o di richiamarlo indietro.
«Passato il mezzogiorno si scorgeva un punto all’orizzonte che si avvicinava sempre di più: il fuggitivo tornava. Quando, dopo poche ore dall’apparizione, il fuggitivo era abbastanza vicino al gruppo, un arabo si avvicinava a lui dolcemente, senza grida, senza recriminazioni, senza alzare le mani, e cominciava a camminargli accanto cantando sommessamente. E questo accompagnamento durava fino all’arrivo di tappa. Il giorno dopo il transfuga di ieri era quello che offriva per primo il suo dorso, e un altro fuggiva».
L’aneddoto mi tormenta da settimane. Paoli ci dice che la vita in comune è faticosa, talvolta soffoca, imbriglia, induce alla fuga. Per questo dobbiamo imparare a camminare in questa prossimità, lasciare che l’altro possa allontanarsi per tornare.
Quanti compagni di viaggio si allontanano e si staccano dal gruppo, vengono meno all’impegno preso. Quante volte il ritorno di chi si è allontanato è impedito dal giudizio, dal rimprovero, dalle certezze di chi è rimasto nel recinto. Quante volte chi rimane si sente in dovere di indicare il giusto, di rimproverare la debolezza al fuggitivo. Mentre l’unica cosa sensata da fare è lasciare spazio, sapere che domani anche noi saremo tentati dalla fuga, sapere che chi torna, se accolto con rispetto, domani sarà il primo ad offrire il dorso per la soma. L’insegnamento che ci viene dal deserto potrebbe essere prezioso anche nelle nostre relazioni quotidiane.