La scaltrezza a servizio del bene
Visivamente incontriamo un paesaggio italiano da esportazione universale. Meno definito rispetto a quello recente de I medici: qui è più percepito che chiaramente riconoscibile, ma sempre della nostra pietra antica, delle nostre forme architettoniche, dei nostri chiostri, degli affreschi, dei ruderi e delle fortezze. Un panorama di totali tirati su a Cinecittà, quello della serie Il Nome della Rosa, ritoccato in digitale e alternato ai tanti spazi autentici degli interni: cupi, solenni, misteriosi e sobriamente eleganti.
Per l’allestimento complessivo di uno sfondo ammaliante, tirato a lucido e portato al top del suo charme perché lo vuole la recente tradizione della serialità italiana in chiaro: quella Rai del già citato I Medici, ma anche un po’ de L’amica geniale; perché la grande fiction pubblica italiana punta tanto sulla caratterizzazione dei luoghi e di un passato nostrano dal sapore forte (remoto o recente, non importa). Indubbiamente in crescita rispetto a qualche tempo fa, anche per la pioggia di produzioni da ogni dove, assai curate nella forma, e a volte – non sempre – anche nei contenuti.
Va da sé, allora, che per mantenersi competitivi, si debba mettere su muscoli nuovi e sterzare dalle strade conosciute, magari entrando in produzioni internazionali (come in questo caso) dove al centro della scena siedono grandi attori non di casa nostra: il Dustin Hoffman de I Medici, per fare un esempio, o i Rupert Everett e John Turturro, soprattutto, di questo nuovo, vistoso sforzo nazionale. Star mondiali solitamente circondate da noti interpreti nostrani: qui, in questa serie diretta da Giacomo Battiato, ecco Fabrizio Bentivoglio per Remigio da Varagine, Alessio Boni per fra Dolcino, Roberto Herlitzka per Alinardo da Grottaferrata e Stefano Fresi (intonacato di trucco fino all’irriconoscibilità) per frate Salvatore: il dolciniano mezzo gobbo e un po’ bestiale che parla mescolando lingue diverse, e va ripetendo di continuo «Penitenziagite».
Turturro scolpisce con calma e attenzione il suo Guglielmo da Baskerville: il frate francescano inglese saggio e illuminato, ex inquisitore poi pentito creato da Umberto Eco nel 1980, e già mutato in immagini da Sean Connery nel film di Jean-Jacque Annaud, del 1986. Turturro si inserisce nel grande impasto di giallo deduttivo, storia, religione e filosofia che compone Il nome della Rosa accettando qualche “inevitabile” battaglia di spade, qualche galoppata di cavalli e qualche sortita fuori dal romanzo e dall’abbazia gelata (vedi il personaggio di Anna interpretato da Greta Scarano e quello della ragazza occitana in fuga dalla guerra) come necessarie digressioni per riempire e vivacizzare (almeno sulla carta) lo spazio abbondante di 400 minuti di racconto, divisi in otto episodi da 50 minuti l’uno, gli ultimi dei quali in onda stasera, 25 marzo 2019, in prima serata su Rai Uno.
Ma al netto di ciò, il suo personaggio agita un misto piacevole di mitezza, assertività e forza interiore, di scaltrezza al servizio del bene che lo rendono (ancora una volta) il vero motore di questo racconto ambientato in un’abbazia benedettina nel 1327. Anche perché Guglielmo, giunto lassù per prendere parte a una delicata disputa tra francescani e membri della curia papale (qui si decide il futuro della Chiesa) assume una interessante posizione morale davanti a Dio, alla chiesa e agli uomini stessi, che ne fanno un personaggio, oltreché attraente per l’intelligenza e l’abilità, anche piuttosto attuale.
Crede in una chiesa al servizio degli ultimi: «Quando lascerai la terra – spiega – non potrai portare con te nulla di ciò che hai ricevuto, ma solo ciò che hai dato». È a favore del sorriso, Guglielmo, e ha un rapporto sereno e profondo con un Dio che è prima di tutto amore. Si sforza di imparare a leggere il mondo correttamente, considerandolo un grande libro, perché «esiste un solo modo per combattere l’odio e l’ignoranza – spiega al giovane Adso – una sola via per migliorare la razza umana: la conoscenza».
Anche in questo, non si discosta troppo dal pensiero di papa Francesco, che nell’intervista per il documentario di Wim Wenders, Papa Francesco, un uomo di parola, sostiene che «né oggi né mai si può fare teologia senza un dialogo con la scienza, perché Dio ci ha dato la capacità di studiare, l’abilità intellettuale di cercare la verità». Così, il pensiero lineare, colto, asciutto e brillante di questo Guglielmo/Turturro illumina la via del suo novizio Adso e mentre cerca di scoprire chi sta uccidendo i religiosi nel convento, trovando nel Bernardo Gui di Rupert Everett l’avversario perfetto per vedere rafforzata la propria positività, illumina la scena di una serie che altrimenti rischierebbe di appiattirsi troppo sull’aspetto visivo, sensoriale, estetico, al pari di tante altre del nostro tempo. Perché sono i personaggi, ancora una volta, vuoi o non vuoi, con il racconto del genere umano che scorre dentro di loro, a fare la differenza.