La saggezza di Milena
La notai subito nell’affollato ricevimento delle nozze di Elvira, mia collega all’università. Seduta in un angolo, osservava assorta quello che succedeva nella grande sala dell’hotel. Si comportava come se da sola stesse guardando un film. Era presente e assente. I suoi occhi, scavati dalla tristezza, erano addolciti da un’inconfondibile saggezza, residuo di grandi dolori. Era elegante nei gesti, nel vestire, nel modo in cui sedeva. Emanava bellezza e mistero. Elvira me la presentò come una persona importante nella sua vita. Piacere, Milena!. Le chiesi se gradiva qualcosa da bere. Le portai un Martini con ghiaccio. Intanto il complesso musicale degli amici dello sposo aveva attaccato la canzone galeotta Insieme, uno dei successi di Mina. Milena mi chiese qualcosa di generico per ringraziarmi della premura. Risposi con più parole di quante lei ne attendesse. Quando le dissi che mi ero dato a Dio, sgranò gli occhi: Com’è possibile ipotecare tutta una vita per Dio?. Penso sia stato un atto di coraggio. In me è maturato attraverso circostanze varie. Dal fondo dell’essere è salito in superficie, prepotente, deciso, irresistibile. Un atto di coraggio che si rinnova ogni giorno. Milena sembrò allontanarsi per correre veloce sul binario dei ricordi; poi, tornando a me, riprese: La vita, tutta la vita necessita di coraggio, talvolta eroico. Al momento della cena, lei cambiò il suo segnaposto con quello di un’altra amica della sposa per sedersi al mio tavolo. Restammo in due. Gli altri invitati del nostro tavolo erano andati a chiacchierare altrove. Un atto di coraggio , bisbigliò con un sorriso contenuto mentre guardava chissà dove. Il mio grande amore fu un ingegnere romano, a Torino per il servizio militare. Dopo il congedo lui ripartì ed io cominciai a pensare al futuro. Era in ballo anche il mio trasferimento a Roma.Mi fu promesso che col nuovo anno l’avrei potuto ottenere. Insegnavo nelle scuole medie e, a quei tempi, non c’era l’inflazione di insegnanti che abbiamo ora. Da Luciano, dopo alcune infuocate lettere d’amore e di foto con promesse eterne, silenzio. Non sapevo cosa pensare. Allora i telefoni non erano come oggi e telefonare significava per me chiamare una famiglia che non conoscevo. Quando il silenzio divenne troppo lungo e insopportabile, con la scusa della scuola mi misi in viaggio per Roma. Lo cercai nello studio di un ingegnere dove lavo- rava prima di essere chiamato alle armi. Appena mi vide, Luciano impallidì e, per la prima volta, gli vidi tremare le labbra. Non riusciva a mettere insieme una frase completa. Non era più quello che io conoscevo. Era anche dimagrito, nonostante fosse tornato a casa. Gli chiesi se voleva vedermi ancora, mi rispose di sì. Ci demmo appuntamento per il giorno dopo. Lui avrebbe chiesto una giornata libera. Andammo in macchina ad Ostia. Mi sentivo abbastanza forte da sopportare uno che era divenuto improvvisamente un irritante sconosciuto. Dopo quasi un chilometro di camminata sulla battigia umida, Luciano scoppiò a piangere. Mi confidò, senza mai guardarmi negli occhi, che tornando a Roma aveva rivisto una sua vecchia amica. Erano andati a letto insieme. La madre di lei, che in qualche modo aveva fatto da paraninfa, lo avrebbe denunciato se non avesse sposato la figlia. Lui mi guardò. Attendeva da me chissà quale aiuto. Non so da dove mi venisse tutta la forza di dirgli, con un sorriso da disperati, che piuttosto che vederlo in carcere, era meglio che io scomparissi dal suo orizzonte. Lo salutai rapidamente e tornai indietro. Fuggivo. Ripartii col primo treno che trovai. Ero sola nello scompartimento. Le lacrime trattenute sembrava ribollissero dentro di me. Tutto divenne nero. L’aria si fece soffocante. Ricordo solo che mi sentii incapace di vivere ancora e corsi verso lo sportello del vagone. Frattura alla gamba e ad un braccio, ferite dappertutto, trauma cranico. Mia madre mi guardava invelenita. Mio padre non venne mai all’ospedale. Nessun conoscente si fece vivo. Sembrava che tutti si fossero coalizzati per farmi capire che meritavo una bella punizione. Rifiutai il cibo per giorni. Decisi di morire. Non ebbi più niente da dire a nessuno. Un giorno, medici che ancora non avevo visto, vennero a farmi delle domande. Non avevo niente da aggiungere al mio ostinato silenzio. Mentre andavano via urlai così acutamente che tutti tremarono. In breve, finii in manicomio. Forse per i sedativi che mi somministravano, non ricordo molto del primo periodo. Mi resi conto un giorno che le finestre avevano grate, le porte venivano puntualmente chiuse e le suore che si occupavano di me non avevano interesse a sapere il mio pensiero. Sicuramente ci deve essere stata qualche crisi isterica perché mi trovai anche immobilizzata su uno di quei letti di contenzione dove si è legati mani e piedi. Ed anche il mio braccio e la mia gamba ancora ingessati erano legati. Una crescente abulia si impossessò di me. Non reagivo più. Lo psichiatra aveva su di me ogni potere. Lui si rivolgeva alle suore per chiedere di me, comandava quello che dovevano fare, le medicine da somministrarmi. Mai una domanda rivolta a me.Visitava il mio corpo come se fosse di un cadavere. Io non esistevo. A chi parlare, a chi? Dopo mesi ripresi a muovermi da sola. Un giorno mi avvertirono che c’era una visita per me. Quando intravidi mia madre e dietro di lei ancora qualcuno, mi girai veloce verso la mia cella. Non avevo più parenti. E forse anche per loro era meglio così, perché le visite si diradarono e lentamente mi abituai all’idea di essere sola al mondo. Grazie alla legge 180, nei primi del 1979 uscii dal manicomio. Tredici anni buttati al vento. Ma avevo imparato molto. Dal dolore, dalla solitudine si impara qualcosa che nessuno ti insegna. Devo confessarti che, vedendo la crudeltà della mia famiglia, che pur di non essere disonorata da una figlia suicida, aveva preferito farmi credere pazza, capivo la logica che sprona tanti a mettere le bombe. Distruggere per distruggere. Mi accolse una mia cugina, emarginata anche lei perché ragazza madre. Lei aveva fatto le battaglie nelle piazze, tutta la sua vita era politicizzata. Poi, ritrovatasi con un figlio, dovette crescerlo, mandarlo a scuola. Lei mi capiva. Mi fece dormire sul divano del soggiorno, finché non trovai un lavoro di badante che mi assicurava anche il posto letto. Quando morì la vecchietta che accudivo, la famiglia del figlio volle tenermi come collaboratrice domestica. Lui era un avvocato e riuscì a far luce sulla mia tragedia. Fu attraverso di lui che riuscii a tornare ad insegnare e a trovare un appartamentino vicino a loro. Restammo sempre vicini ed Elvira, loro unica figlia, crebbe più con me che con i suoi genitori. Luciano si rifece vivo dopo trent’anni. Mi fece cercare attraverso il comune. Ci incontrammo al primo bar vicino alla stazione dove arrivò una mattina di inizio estate. Davanti a lui mi sentii come al manicomio. Senza parole. Mi chiese se avessi bisogno di qualcosa. Sarebbe stato meglio non sentire quelle parole che arrivarono alle mie orecchie come il sibilo di frecce. Forse chi ha veramente bisogno di aiuto sei tu, gli dissi senza rancore. Seppi del suo infelice matrimonio naufragato presto. Delle sue continue ricerche di me. Non so chi gli aveva fatto sapere che ero viva. Mentre lui attingeva coraggio e speranza dal suo stesso raccontare, l’abisso tra noi diventava sempre più profondo. A distanziare le nostre esistenze era la nostra stessa fragilità. Parlare d’amore era grottesco, ripensare al passato non aveva senso. Luciano piangeva. Poi, stupito dalla mia indifferenza, restò in silenzio a scrutarmi. Gli raccontai, senza attendere commenti, quel poco a cui si riduceva la mia esistenza. Lo salutai senza dare né chiedere indirizzo. La città anonima mi avvolse, nascondendomi presto allo sguardo esterrefatto di Luciano. Ora continuo a premere con tutte le forze sulla lapide del passato. I morti non bisogna mai risuscitarli. A Milena, il volto si illuminava soltanto quando intravedeva Elvira che si intratteneva felice tra gli invitati. Ho cercato di darle quel po’ di saggezza che la vita, nella sua ferocia, mi ha concesso. Quando Elvira si avvicinò al nostro tavolo, abbracciò commossa l’amica e, rivolta a me: Se non ci fosse stata Milena, oggi non saremmo qui, non sarei mai sbucata fuori dal tunnel della droga. È stata lei a insegnarmi a camminare a testa alta sulle braci della vita.