La Russia, i grandi vecchi e gli occhi sorridenti di Steven

Padroni di casa primi nel medagliere delle Olimpiadi di Sochi, caratterizzate dai trionfi degli ultraquarantenni e da belle storie come quella dell’americano Holcomb
La squadra statunitense di bob a quattro

Sarà per quell’atmosfera così speciale. Sarà per la possibilità di avvicinarsi più concretamente a discipline considerate “minori”. Sarà per quel sentimento patriottico che ci fa vibrare per i nostri portacolori. Sarà per quelle storie di sport, di vero sport, che ogni quattro anni ci colpiscono, commuovono, inorgogliscono. Sarà per questo, e per tanto altro ancora, che ogni cerimonia di chiusura di un’Olimpiade lascia sempre un velo di tristezza.

Da ieri pomeriggio, la 22esima edizione dei Giochi olimpici invernali resterà solo un ricordo: positivo o negativo, coinvolgente o deludente, emozionante o scialbo, a ognuno il proprio giudizio. Qualche spunto qua e là, però, proviamo ad offrirlo.

È stata l’Olimpiade della Russia, in quanto Paese ospitante e in quanto regina del medagliere. Al primo posto sia come ori (13) che come medaglie totali (32), la delegazione di casa ha chiuso in maniera trionfale grazie al successo nel bob a quattro e alla tripletta nella 50 chilometri di fondo. Una Russia che ha anche beneficiato della naturalizzazione di due straordinari campioni quali il sudcoreano Victor An – al secolo Ahn Hyun-Soo, vincitore di tre ori nello short track – e lo statunitense Vic Wild, autore di una strepitosa doppietta nello snowboard. Una Russia che ha sfruttato al meglio il grande vantaggio di conoscere alla perfezione i tracciati di gara, in particolare il budello ghiacciato sul quale sono andate in scena le competizioni di bob, slittino e skeleton. E una Russia, va detto, sulla quale restano un paio di grossi dubbi: l’oro nell’artistico femminile di pattinaggio di figura (nel cui pannello erano presenti tre giudici di casa), assegnato ad Adelina Sotnikova e non – come parso scaturire dalle prestazioni sul ghiaccio – alla sudcoreana Yu-Na Kim, e quello nello skeleton maschile, vinto da un Alexander Tretiakov, autore di una serie di partenze piuttosto dubbie sia a livello di immagini televisive (l’atleta russo viene sempre ripreso quando già lanciato in pista) sia come tempo di spinta (il medesimo in tutte e quattro le discese).

L’Italia ha chiuso invece con otto medaglie, nessuna delle quali d’oro: con tutta la buona volontà, e pur riconoscendo la bontà di varie prestazioni non premiate dal podio, l’aver migliorato – in termini di medaglie – la disastrosa spedizione di Vancouver 2010 non può soddisfare nessuno, addetti ai lavori in primis. Più che alla sfortuna, gli otto quarti posti messi insieme dagli azzurri sono da attribuire a una scarsa abitudine a lottare per il vertice, ma è evidente che i problemi dello sport italiano sono altri: poca organizzazione, scarsi investimenti, cultura sportiva calciocentrica e un’atavica incapacità di dialogare con le istituzioni scolastiche.

Ma sono state anche le Olimpiadi dei grandi “vecchi”, dei giovanotti di quarant’anni ancora capaci di recitare un ruolo da protagonisti. Gente come il nostro slittinista Armin Zoeggeler – a medaglia in tutte e sei le Olimpiadi alle quali ha partecipato – o come il suo collega russo Albert Demchenko, classe ’71 e due volte argento sulla pista di Sochi. Fenomeni del bob quale il beniamino di casa Alexandr Zubkov, autore di una fantastica doppietta, o del biathlon come il norvegese Ole Einar Bjoerndalen, che con i due ori conquistati a Sochi è diventato l’atleta più medagliato alle Olimpiadi invernali. Per non parlare, poi, del leggendario Teemu Selänne, bronzo con la sua Finlandia e nominato miglior giocatore del torneo di hockey su ghiaccio: mica male, per uno nato il 3 luglio del 1970.

Ed è straordinariamente bello che tra le immagini dell’ultima giornata di Sochi 2014 ci siano anche gli occhi sorridenti di Steven Holcomb, occhi che fino a qualche anno fa funzionavano poco o nulla e che avevano portato l’atleta statunitense sull’orlo del suicidio. Affetto da un problema degenerativo alla vista, nel 2007 il 33enne di Park City – arrivato al punto di “sentire” la pista più che vederla – fu sottoposto a un intervento non invasivo che risolse temporaneamente la situazione al punto da permettergli di conquistare sette podi in Coppa del Mondo. L’anno successivo, però, i problemi tornarono con maggior gravità, e una sera Holcomb cercò di farla finità attraverso un mix di antidepressivi e Jack Daniels’. Risvegliatosi miracolosamente dopo 12 ore di sonno, il campione americano andò avanti finché non gli fu diagnosticato il cheratocono, una malattia che porta la cornea ad allungarsi in avanti e a distorcere le immagini: la cura fece effetto, e da allora l’americano poté tornare a lanciarsi a tutta velocità lungo le piste di mezzo mondo. Risultato? Due edizioni della Coppa del Mondo assoluta, altrettante di quella di specialità (equamente divise tra bob a quattro e bob a due), nove medaglie mondiali e tre olimpiche. Dopo l’oro di Vancouver nel bob a quattro, infatti, a Sochi sono arrivati due bronzi, ma quegli occhi sorridenti valgono molto, molto di più.

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