La ruota salvavite più famosa d’Italia
Non lontano dalla stazione centrale di Napoli, il complesso della Santissima Annunziata Maggiore è un gioiello le cui origini risalgono al XIV secolo, epoca della regina Sancia di Majorca, consorte di Roberto I d’Angiò. Ricostruita lungo i secoli dopo terremoti e incendi, la basilica che ne fa parte reca nell’ultimo suo rifacimento l’impronta del genio di Luigi Vanvitelli e del figlio Carlo, lui pure architetto, e con la sua cupola slanciata è il primo monumento adocchiato da chi, uscendo dalla stazione, spazia con lo sguardo sull’enorme piazza Garibaldi. Celebre per l’annesso istituto che accolse i trovatelli di Napoli e provincia – i cosiddetti “figli della Madonna” –, la chiesa intitolata alla Vergine costituisce una vera immersione nella bellezza, in contrasto con l’edilizia povera e degradata che la circonda. Legato ad essa, propongo questo mio ricordo di una mattinata insolita, alcuni anni fa…
Uscito indenne dal popoloso rione di Forcella, sto salendo la gradinata dell’Annunziata dove alcuni ragazzini sicuramente del posto sembrano attendere qualcuno, quando vengo interpellato da uno di loro: «Signo’, vulite che vi facciamo una visita guidata?». Sulla maglietta sfoggia la scritta “Maggio dei monumenti”, la fortunata rassegna culturale che dal 1995 prevede nel centro storico di Napoli una serie di eventi tra i quali concerti, attività teatrali, mostre e, appunto, visite guidate, con la collaborazione anche di alunni delle medie e studenti delle superiori reclutati per illustrare ai visitatori le bellezze storico-artistiche della città. Rifiutare un invito così garbato non è possibile; inoltre sono curioso di vedere come se la cavano questi giovanissimi nell’esporre i tesori dell’Annunziata.
Nell’ampia, maestosa navata in stile tardo-barocco vengo subito attorniato da altri ragazzini e ragazzine (il più grande non avrà 14 anni), organizzati in modo da distribuirsi le cappelle e gli altri spazi del monumento, di cui hanno imparato cenni sintetici. Quasi temessero di dimenticare qualcosa, espongono il loro sapere tutto d’un fiato, sicché stento a star dietro soprattutto ad uno con gli occhi a mandorla che, imperterrito, esegue il suo compito dando ogni tanto una sbirciatina sugli appunti che ha in mano quando rischia d’impappinarsi.
Il gruppetto, presente qui già dalle 9 del mattino, resterà operativo fino alle 12,30. Siccome però di visitatori se ne son visti pochi finora, stavano annoiandosi a far niente e il mio arrivo deve averli galvanizzati. Commoventi nell’ansia di erudirmi, alternano a termini tecnici inusuali sulla loro bocca nomi di artisti famosi come Belisario Corenzio, Francesco De Mura, Giuseppe Sammartino, Giacinto Diano… Da parte mia simulo l’interesse di uno completamente all’oscuro, per dare soddisfazione a ciascuno.
Concluso il giro della basilica, faccio per ringraziare i miei accompagnatori, quando vengo catturato da due tipetti che rispondono al nome di Gigino e Angelina, lui paffutello e ricciuto, lei una brunetta vivacissima. «Signò, non è finita la visita!». E mi guidano lungo un corridoio che comunica con l’adiacente ex Orfanotrofio: vogliono mostrarmi la “Ruota degli Esposti” all’interno della quale i bambini orfani e indesiderati perché illegittimi o nati in famiglie oppresse dalla miseria venivano abbandonati dalle loro stesse madri.
Con reale interesse stavolta (è la prima volta che ho l’occasione di vedere la Ruota più famosa d’Italia), vengo introdotto in un ambiente angusto sul cui muro di fondo una bussola girevole cilindrica in legno, suddivisa in due parti provviste di sportello, comunica con l’esterno tramite un’apertura. L’ingegnoso sistema assicurava anonimato e riservatezza. Quando la Ruota girava, una campanella all’interno avvisava il personale: monache, balie e un medico, pronti ad accogliere e a fornire al neonato le cure necessarie. A battezzarlo dopo il lavaggio pensava un sacerdote, mentre un addetto alla sua registrazione annotava gli oggetti trovati loro addosso: mezze monete, cartigli, piccoli preziosi o altro, quali segni di riconoscimento per un’eventuale futura ricerca da parte di un genitore.
Divenuti così “figli della Madonna”, i trovatelli venivano presi in cura, assistiti e ospitati fino alla maggiore età nella Real Casa Santa dell’Annunziata, dotata anche di un ospedale di prim’ordine. A tutti veniva data una istruzione di base che consentiva loro di imparare un mestiere, mentre alle bambine, destinate generalmente al matrimonio, era assicurata una piccola dote. I più fortunati, per lo più i maschi, venivano adottati.
La Real Casa Santa provvedeva all’infanzia abbandonata grazie anche alle donazioni dei privati, in gran parte membri della nobiltà (sul muro esterno al di sopra della Ruota un puttino di marmo reca la scritta: «O padre e madre che qui ne gettate/ alle vostre limosine siamo raccomandati». Nel 1875 la Ruota degli Esposti cessò la sua attività, ma anche dopo, per un certo tempo, i piccoli continuarono ad essere “esposti” di notte sui gradini dell’Annunziata.
Questa, in breve, la storia di una delle più importanti istituzioni assistenziali del regno di Napoli, illustrata con orgoglio da Gigino e Angelina, compreso il caso (sarà vero?) di un bambino piuttosto cresciutello che, ficcato a viva forza nella Ruota, si ritrovò con le estremità fratturate. Li interrompo solo per chiedere loro cosa pensano dell’opportunità di ripristinare, adattato ai nostri tempi, questo sistema salvavite. Senza esitare, la risposta: «Certo, signo’, meglio che buttarli nella monnezza!».
Subito dopo Gigino si mette a declamare con sentimento una poesia di Ferdinando Russo dal titolo ‘A rota d’a Nunziata, di cui ricordo solo i primi versi: «Cchiù spisso era ‘na mamma, ca purtava/,dint’ ‘o sciallo, quaccosa arravugliata:/‘na criatura. E doppo ‘na guardata/sott’ uocchio, dint’ ‘a rota ll’ apusava…»..
E Angelina? Per non essere da meno, anche lei vuol recitare per me una poesia, sempre in napoletano, dove stavolta s’immagina che a parlare sia uno dei trovatelli. «Io però non sono una trovatella, dico solo la poesia» tiene a precisare. Purtroppo riesco a capire ben poco della sua torrenziale performance.
Trovo ammirevole la serietà con cui questi figli del popolo s’impegnano nel “Maggio dei monumenti”. Anche se fra qualche anno avranno altri interessi, mi auguro che non venga mai meno in loro la coscienza acquisita di essere eredi di un patrimonio culturale enorme, da trasmettere alle generazioni future. E intanto continua a risuonarmi dentro la risposta di Gigino e Angelina: «Certo, signo’, meglio che buttarli nella monnezza!».
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