La rivincita degli spazi personali

La rivoluzione digitale sembrava aver ridotto irrimediabilmente le distanze, quasi fino ad annullarle. Ma il Covid-19 ci sta dicendo che non è vero del tutto…
AP Photo/Marco Ugarte

Stiamo vivendo con apprensione, collettivamente e personalmente, l’inattesa emergenza del coronavirus. Che si sia in Europa o altrove, forse un po’ meno nelle Americhe e in Africa. Le notizie vere s’accavallano con le fake news, spesso in modo incontrollato per via delle paure legittime e delle fobie “illegittime”, seppur comprensibili. Ascoltiamo con apprensione le statistiche che crescono, ma dimenticando che ci sono dati che non vengono divulgati, cioè quelli delle normali influenze stagionali, quasi sempre più mortali del Covid-19, ma provocate da virus conosciuti e quindi ritenuti meno pericolosi. Cifre assai più elevate di quelle relative al mostriciattolo di queste settimane. Per non parlare dei morti per malaria, per febbre gialla, per dissenteria batteriche, per Aids, persino per parto. La fobia del virus letale-globale fa il suo cammino e fa danni sociali incalcolabili.

Tutto ciò pare ridurre il nostro pianeta, più che mai, a un unico villaggio, anche perché la rapidità delle notizie è tale che sembra che la contemporaneità annulli ogni distanza: ci sono app diffusissime che in tempo reale aggiornano i numeri del coronavirus a livello planetario, e così Codogno o Wuhan paiono grandi come un Kazakistan o una Germania. Ma nel contempo avviene un fenomeno psicologico inverso: Codogno e Wuhan appaiono lontanissime, paeselli isolati nel mondo, il focolaio iraniano d’infezione sembra appartenere a un altro pianeta, quello sud-coreano della setta addirittura leggendario. E il mondo si richiude alla nostra famiglia, alla nostra casa, gli aerei si svuotano, i biglietti dei treni d’improvviso tornano disponibili anche nelle ore di punta, le partite di calcio sono luoghi per pochi intimi, le pesche di beneficienza e le lezioni universitarie sono ricordi. Il nostro mondo si rimpicciolisce e ci ritroviamo a guardare la punta delle nostre scarpe, magari avendo in tasca una mascherina e un’amuchina comprate a peso d’oro.

È, questo, uno dei paradossi della globalizzazione digitalizzata, quello di illudere che tutto stia nel palmo della nostra mano, quello cioè di rimpicciolire le nostre visuali per ridurle quasi a nulla. Il fatto è che la persona umana ha bisogno del suo spazio, del suo ambiente familiare, del suo environnement che lo fa sentire vivo, membro di una precisa comunità, limitata nello spazio, degno degli affetti familiari o amicali. La persona umana deve talvolta cessare di essere un numero ID del proprio cellulare (o più numeri, ma è la stessa cosa) per ridiventare un nome: sentirsi ridotti a una cifra identificativa, a una possibilità statistica di contagio provoca la spinta opposta di rimpicciolire gli orizzonti di vita per ritrovare la propria dimensione personale, a discapito dell’anonimato globale.

La paura – che purtroppo in questi casi facilmente muta in panico, fobia, terrore – è uno di quei sentimenti umanissimi che, evidenziando i nostri limiti e la nostra finitezza umana, ci fanno più uomini, più donne, più noi stessi. La qual cosa non è poi così male, visto che siamo unici e irripetibili, amati o odiati dagli altri, ma noi stessi. E allora, anche un coronavirus qualsiasi può aiutarci a ritrovare la nostra dimensione reale. E, perché no, a capire che abbiamo bisogno degli altri per essere umani.

 

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