La relazione come terapia?
Sono le 19 di un normale martedì sera. Suona il telefono. Pronto, sono Renata, sto rientrando a Roma da una conferenza, ma non posso andare a casa, devo passare prima da un ospedale. Non ho visto un gradino e sono caduta. Penso di essermi rotta una spalla. Potresti venire con me?. Ci diamo appuntamento presso l’ospedale concordato dove Renata arriva intorno alle 20. Situazione tranquilla al pronto soccorso, ci sono solo tre persone con situazioni non gravi prima di noi, cosa che ci fa pensare che faremo presto. Ma non sarà proprio così. Cominciano le visite, poi le radiografie, poi, ad un certo punto la situazione rimane ferma. Non chiamano più nessuno, non si sa perché. Intanto fra noi, assistiti, amici e parenti, si familiarizza. Ci si racconta cos’è successo, le paure, le attese dell’eventuale diagnosi. E poi, visto che c’è il tempo, si va anche oltre. Nel frattempo arriva Nunzio, col suo fagotto ambulante, Vincenzo che non si regge in piedi, Fabrizio con una valigia, intenzionato a rimanere: verosimilmente non ha un altro posto dove andare. È la scena che si ripete ogni sera, come mi spiega il vigilante che accoglie e saluta tutti, offre una bevanda a Nunzio prima di accompagnarlo fuori, scambia due chiacchiere con Fabrizio, cerca di svegliare Vincenzo… È un mondo, quel piccolo pron- to soccorso, dove il fattore umano emerge di prepotenza, perché lì persone che si incontrano per caso, accomunate da un malessere, da un disagio, da una difficoltà, non rimangono estranee le une alle altre. E così, quando finalmente alle 22,30 andiamo via, con Renata che per fortuna aveva preso solo una forte contusione, si torna a casa con in cuore quest’umanità con la quale si è comunque instaurato un, seppur fortuito, rapporto. La sanità in bianco e nero La scena appena descritta non è sicuramente di quelle che saltano in mente quando si pensa ad un ospedale. Se chiedessimo in giro cosa ciascuno di noi associa alla parola sanità in genere, certo il quadro che ne emergerebbe sarebbe a tinte fosche. A cominciare dalle liste d’attesa infinite che si accorciano solo per chi può pagarsi l’esame richiesto; per continuare con la frequenza delle complicazioni infettive contratte durante un ricovero. Scatti in bianco e nero con poco colore. Perché come si fa a dimenticare che una ragazza entra per una banale appendicite e ne esce in coma, oppure che, anziché il rene malato, viene asportato quello sano, o che una bambina di tre anni muore poco dopo essere stata dimessa…? E come si fa a chiedere ai cittadini di continuare ad avere fiducia in questa sanità che sforna cattive notizie e controversi risultati ogni giorno? Ricordo il caso di Rosa, che tra Natale e capodanno si reca per ben quattro volte al pronto soccorso di due diversi ospedali per forti disturbi allo stomaco. Niente di strano dalle radiografie, ma la signora continua a stare sempre peggio. Finché un amico medico non riesce a farla ricoverare. Quella notte stessa Rosa viene operata d’urgenza per un blocco intestinale risolto in extremis. Che fine avrebbe fatto la signora Rosa senza l’amico medico? Tante domande, troppe polemiche creano nei cittadini sconforto, paura, terrore. E a ragion veduta.Ma non vogliamo qui allungare la lista nera che ognuno di noi saprebbe benissimo far da sé. Perché non possiamo dimenticare che in mezzo a tanta foschia c’è chi cerca di accendere qualche luce per vederci meglio e insieme alle maglie nere ci sono i centri d’eccellenza. Certo, una volta era più diffusa la spinta a vivere la professione medica quasi come una vocazione al servizio dell’uomo, mentre adesso le motivazioni prevalenti possono essere altre.Ma il sole non è del tutto tramontato nel pianeta sanità. E dunque non è un caso che spesso medici e operatori sanitari si ritrovino a confron- tarsi per rimettere in circolo, prima di tutto, la salute. Come ad esempio avviene al Policlinico Gemelli dove il 16 e 17 febbraio alcune centinaia di dottori provenienti da varie parti d’Italia e d’Europa, ed anche studenti in cerca di nuove prospettive per l’agire medico, si riuniscono attorno al tema della Comunicazione e relazionalità in medicina. Un evento promosso dall’Associazione Medicina-dialogo-comunione in collaborazione con l’Università Cattolica. Perché in un universo, quello medico, sempre più frammentato e specializzato quella che sta scomparendo è sempre di più la relazione. Quella che mette in rapporto il malato e il medico e non la patologia con la cura; i medici fra loro e non lo specialista di un organo o dell’altro; i diversi attori sanitari e non gli impiegati di diverso grado… Le buone pratiche Un convegno dove si riflette, ci si confronta, ma non solo su teorie. Le buone pratiche, quelle che fanno la buona sanità, hanno infatti un posto rilevante nel programma. E mostrano a fatti cosa provoca l’inter-relazione tra operatori in medicina, ad esempio in un reparto di terapia intensiva o in oncologia, i risultati di una collaborazione in campo epidemiologico in Algeria, l’interdisciplinarietà in geriatria… In un distretto sanitario dell’Olanda, dove c’è una rete sanitaria territoriale molto bene organizzata, con ospedali per casi acuti, altri per malati cronici, case di cura per anziani, centri diurni… è stata molto efficace l’iniziativa di un geriatra di favorire un lavoro di équipe per la presa in carico degli anziani in un reparto di riabilitazione e psicogeriatria. Costruire rapporti personali con tutti, indipendentemente dal posto che ricoprono, trovare momenti settimanali di incontro dove si condividono le situazioni, ha suscitato, non senza difficoltà, soprattutto all’inizio, un clima di fiducia e di collaborazione che ha creato un ambiente di lavoro umano, potenziato le risorse personali e professionali di ognuno, migliorato la qualità dell’aiuto al malato, favorito la collaborazione con altri enti della regione. Se la gerarchia viene vissuta come servizio – commentava qualcuno – allora tutta la struttura sanitaria può essere rinnovata. E la gestione manageriale acquista un volto umano. E l’inter-relazione produce progetti in grado di dare svolte significative a problemi sanitari gravi. Come succede in Congo per il trattamento dell’Hiv/Aids, o a Manila presso il centro Bukas Palad con programmi di prevenzione e cura della tubercolosi infantile, o in Messico con progetti di interventi sanitari continuativi e capillari o in Camerun dove ha preso il via una partnership tra Paesi a diverso standard assistenziale con la Regione Toscana per la risoluzione del cancro della cervice. Progetti, dunque risultati. Alcuni con risvolti concreti evidenti, come quando si riesce a trattare una malattia in maniera risolutiva, altri forse meno evidenti e non risolutivi. Ma non per questo meno efficaci. Come succede quando si riesce ad accompagnare fino alla fine una persona che ha una malattia inguaribile. Una storia per tutte. A Federica, 46 anni, insegnante, un figlio cerebroleso dalla nascita, viene diagnosticato un tumore in stadio avanzato. Viene sottoposta ad intervento chirurgico e successivi trattamenti. È informata del suo stato di malattia, ma non riesce a realizzare che a breve morirà. Si chiude, diventa impenetrabile. Il marito, attento e sensibile, esprime la sua difficoltà a gestire da solo la verità della terminalità. Il medico che la segue prende a cuore questa situazione, cerca di suscitare un dialogo. Visite solitarie, dapprima senza risultato. Anche il marito, in effetti, teme di non riuscire a tollerare il confronto con le angosce di morte. Pure per lui c’è un’attenzione particolare da parte dell’équipe medica. Fino a quando, durante una visita, Federica chiede apertamente: Dottore, ma allora devo morire?. Più che una domanda è una riflessione che la signora ha finalmente trovato il coraggio di fare a voce alta. Federica riesce così a parlare col marito delle cose che le stanno a cuore e decide di essere seguita a casa in assistenza domiciliare per vivere ancora un po’ accanto al figlio. Questo ed altro fa la relazione. LA PERSONA, IL RAPPORTO La relazionalità in medicina. Una dimensione da recuperare. Ne parliamo con la dott.ssa Flavia Caretta. specialista in Geriatria e Gerontologia presso il Policlinico Gemelli. Dott.ssa Caretta, le innovazioni in medicina hanno prodotto cambiamenti radicali. Si va avanti, certo, ma c’è qualche rischio? Il progresso impensato nelle capacità diagnostiche e terapeutiche e il concomitante sviluppo delle specializzazioni fanno sì che il singolo paziente non venga più curato da un solo medico, ma da più medici. Succede però che l’obiettività degli esami diagnostici rischi di farne una medicina silenziosa nei confronti del paziente. Il risultato clinico, l’immagine radiologica, può diventare l’unico contenuto di una comunicazione avulsa da una relazione tra persone. E allora cosa succede? Negli ultimi venti anni si è potuto registrare un crescente interesse sulle tematiche della comunicazione e della relazione in medicina. Bisogna inoltre considerare il cambiamento avvenuto in generale nel campo della comunicazione che ha avuto il suo riflesso anche nel rapporto medico-paziente. Mentre prima si era convinti che un buon paziente segue le direttive del medico senza fare obiezioni, senza porre domande, adesso l’informazione medica passa attraverso tante fonti orientate magari a promuovere la salute tramite la prevenzione. Così che il medico qualche volta si trova di fronte un interlocutore che sa, o almeno crede di sapere, e avanza pretese di scelte terapeutiche. Senza dimenticare l’influenza crescente dell’economia sulla medicina che mina, con la tendenza al profitto, il rapporto medico-paziente. Il rapporto medico-paziente, appunto, la relazione. Sarà necessario che tornino di moda? Sicuramente. Già anni fa si evidenziava che i due terzi delle cause giuridiche in ambito professionale medico erano da imputare ad un difetto di quantità e qualità della comunicazione interpersonale più che a manchevolezze o errori diagnostici o tecnici. Al contrario la qualità della comunicazione nella pratica assistenziale risulta strettamente correlata ad una diminuzione degli errori medici, dello stress, ad una maggiore soddisfazione sia del paziente che del medico. Converrà che una medicina siffatta richiede qualcosa in più ai medici… Sì, qui entra in gioco il fattore tempo che varia da persona a persona e che invece spesso è sottoposto a standard industriali, come se i pazienti fossero tutti uguali, in serie. E ciò va a scapito della fiducia, che si costruisce con un percorso fatto di attenzione, di ascolto, di benevolenza. E con un lavoro di squadra. saranno capaci di un’inversione di tendenza? E di lavorare in équipe? Io penso che gli stessi progressi tecnologici della medicina rendano obbligatorio il lavorare insieme, anche se questo non si improvvisa ma va perseguito attivamente. E a trarne vantaggio non è solo il paziente, ma, direi, prima di tutto, gli operatori. Perché possono elaborare insieme quegli oneri psicologici che il lavoro assistenziale comporta, condividere il coinvolgimento emotivo di fronte ad una situazione particolarmente dolorosa, confrontare una decisione difficile, chiedere un parere… Certo bisogna superare l’individualismo o lo spirito competitivo. Ma questo passaggio dalla multidisciplinarietà alla interdisciplinarietà trasforma l’ambiente assistenziale in ambiente realmente terapeutico: per il paziente che troverà un clima sereno, per gli operatori che si sentiranno valorizzati e per chi dirige, perché avvertirà meno il peso delle responsabilità e delle decisioni che verranno condivise e partecipate.