La Regola, capolavoro del santo

In uno scritto degli anni Cinquanta intitolato "Il capolavoro del santo" Chiara Lubich delinea il profilo dei fondatori e della fondatrici. Una presentazione del testo.

È frequente il fatto che, entrando nel parlatorio o nei lunghi corridoi d’un convento, di recente o di antica fondazione, si veda sulle pareti la figura del fondatore, spesse volte santo, con la regola in mano.

Chi sta nel mondo, entra, guarda e non capisce o comprende poco.

Nella maggior parte delle persone un santo riscuote sempre simpatia, anche fra gli atei. Ma la gente ama immaginarselo o nelle estasi della contemplazione o confuso tra il popolo che benefica o in quei fatti che passano di bocca in bocca e che circondano quasi sempre la figura di un santo. Fatterelli minuti, alle volte, eternati nel tempo da una frase, da un gesto, che nessun uomo avrebbe detto o fatto se non quel santo, perché guidato da Dio, gesto in cui è palese l’inconfondibile incontro fra il divino e l’umano, che dà una nota nuova, e alle volte rivoluzionaria, nel vivere noioso e sempre uguale del mondo.

Ma il santo fondatore non è solo questo.

Il fondatore è un uomo che ha fatto quanto Dio voleva, che s’è sforzato – con un dono sempre più totale e più largo di sé a Dio – d’esser perfetto come il Padre.

Il santo è, in realtà, un piccolo padre e la santa è una piccola madre, perché Dio è Amore ed essere ripieni di Dio significa diventar partecipi della divina fecondità dell’Amore.

Si comprende bene un fondatore se si guarda ciò che egli ha fatto.

Il piccolo o grande gregge che l’ha seguito, che egli ha ordinato in famiglia, con le leggi eterne del Vangelo, sentite risonare con novella e attuale forza dallo Spirito Santo nel suo spirito, è la più importante opera del santo: rappresenta ciò che per una madre è il figlio, il suo figlio.

Quando il fondatore crede finita l’opera di Dio, abbandonato in Lui, come uno strumento nelle mani d’un artista, stende le linee essenziali della sua opera e scrive una regola. Lo deve fare e lo vuole fare con la forza con la quale una madre dice: “Questo è il mio bambino e non un altro”.

Nel bimbo la madre è ripagata di tutto il suo patire ed egli è il più vivo ricordo delle sue gioie e dell’amore che l’ha legata al padre. Ha una determinata fisionomia, un suo carattere, un suo sangue.

Il santo ama Dio con un amore che dista dall’amore umano di quanto il cielo dalla terra e quest’amore gli dà piccoli ed immensi dolori, piccoli e ineffabili gaudi nel Dio delle beatitudini.

Ma gioie e dolori non sono fine a sé stessi; sono mezzi perché la Chiesa abbia una nuova opera di Dio, dove il Signore delinea una data fisionomia con caratteristiche inconfondibili, dove immette un sangue divino, che è il particolare spirito che la informa e di cui parte dell’umanità in quell’epoca deve essere beneficata.

La regola attesta, spiega, fissa, mantiene tutto questo e perché lo fa è il capolavoro del santo.

Chiara Lubich

 

“Un piccolo padre, una piccola madre”

Paternità e maternità costituiscono l’elemento più evidente che differenzia il santo fondatore dal santo che non ha dato vita ad una nuova stabile istituzione nella Chiesa. Il santo rimane un esempio luminoso per tanti, il fondatore genera una famiglia di figli e figlie che partecipano e mantengono vivo il suo carisma.

La storia della vita religiosa conosce altre immagini che descrivono il profondo rapporto che lega i fondatori e i loro discepoli: quella della piantagione che vede la continuità tra seme e pianta, quella della testa e del corpo, quella delle fondamenta e dell’edificio…

Chiara, nel testo in esame, ricorda un’ulteriore similitudine, quella del fondatore come pastore, seguito da un “piccolo o grande gregge”. Anche Chiara d’Assisi nel suo Testamento parla del “piccolo gregge che l’altissimo Padre, per mezzo della parole e dell’esempio del beato padre nostre Francesco, generò nella sua santa Chiesa”, fondendo in un’unica immagine l’idea del pastore e quella del padre o della madre, così come fa Chiara Lubich che parla insieme di gregge e di famiglia: “il piccolo o grande gregge che l’ha seguito, che egli ha ordinato in famiglia”.

Quella della paternità e della maternità rimane infatti l’immagine più ricorrente e più feconda di suggestioni. San Francesco, nella lettera a Frate Leone, chiama con naturalezza il suo compagno “Figlio mio”, paragonandosi ad una madre.

La stessa consapevolezza di maternità la dichiara Angela Merici nei suoi Precetti, quando afferma che Gesù Cristo “mi ha eletta di esser madre et viva et morta di così nobel compagnia”.

Durante l’elezione di Ignazio di Loyola a superiore generale, uno dei suoi primi compagni, Claudio Jay, nella scheda di votazione motiva la scelta nel fatto “che Dio ha dato a tutti noi da molti anni don Ignazio per Padre”.

Un forte richiamo alla paternità è quello del mio fondatore, sant’Eugenio de Mazenod, quando scrive che Dio “mi ha predestinato ad essere padre di una famiglia numerosa nella Chiesa”; “Io sono padre e quale padre!”. Così egli motiva il forte amore verso i suoi missionari: “Amo i miei figli più di quanto qualsiasi altra creatura potrebbe amarli… È senza dubbio a causa della posizione nella quale egli si è degnato pormi nella sua Chiesa”. Dio, comunicandogli il carisma di fondatore, gli ha dato la capacità di trasmettere ad altri, in un processo generativo, il suo progetto apostolico, con tutte le ricchezze in esso contenute.

Chiara individua con acutezza il motivo per cui fondatori e fondatrici sono piccoli padre e piccole madri: “perché Dio è Amore ed essere ripieni di Dio significa diventar partecipi della divina fecondità dell’Amore”.

Tale è, ancora una volta, ad esempio, la consapevolezza di sant’Eugenio de Mazenod. Parlando dell’amore con cui egli ama i propri missionari afferma espressamente che si tratta di una partecipazione all’amore col quale Dio stesso ama. “È impossibile – egli scrive – che vi facciate un’idea di quanto questo cuore vi ami… Dio lo sa, Lui che me l’ha dato”. Dio, annota ancora, “mi ha accordato un cuore di tale natura che basta a contenere i miei figli”, “una partecipazione all’immensità del suo amore per gli uomini”.

Fondatori e fondatrici possono riferire a sé quanto san Paolo diceva ai Corinzi (1 Cor 4, 15) e ai Galati (4, 19): “Vi ho generati in Cristo Gesù”.

“Le leggi eterne del Vangelo” 

Quale la fisionomia che un fondatore imprime alla sua opera? Egli la ordina, scrive Chiara “con le leggi eterne del Vangelo, sentite risonare con novella e attuale forza dallo Spirito Santo nel suo spirito”. In una frase è condensata la ricchezza dell’ispirazione originante un nuovo carisma nella Chiesa. È il Vangelo di sempre, con le sue “leggi eterne”, che continua ad essere vissuto e nello stesso tempo, grazie all’azione dello Spirito, il Vangelo continua a mostrare la sua novità e attualità.

La Regola di vita di ogni forma di vita religiosa, come di ogni cristiano, è la Scrittura. “Sono le Scritture che ci guidano alla vita eterna – scriveva già Orsiesi, discepolo e successore di Pacomio, il primo a scrivere una regola per una comunità – e il nostro padre [Pacomio] ce le ha consegnate e ci ha ordinato di meditarle continuamente…”.

Nella regola attribuita a san Bruno si legge: “Il Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo, interpretato dai dottori della Chiesa cattolica, servirà da regola a tutti i Certosini”.

Anche per Francesco d’Assisi la regola è “la vita del vangelo di Gesù Cristo”. La Regola bollata inizia con lo stesso tenore: “La Regola e la vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo vangelo del Signore nostro Gesù Cristo… “, avendogli l’Altissimo rivelato che avrebbe dovuto vivere “sotto la forma del santo vangelo”.

Così anche in tempi più recenti. Per Vincenzo Pallotti “La regola fondamentale della nostra minima Congregazione è la vita di nostro Signore Gesù Cristo per imitarla con tutta la perfezione possibile”.

Don Luigi Orione scrive che “Nostra prima Regola e vita sia di osservare, in umiltà grande e amore dolcissimo e affocato di Dio, il Santo Vangelo”.

Don Giacomo Alberione asserisce che la Famiglia Paolina “aspira a vivere integralmente il vangelo di Gesù Cristo”.

A ragione il Concilio Vaticano II ha interpretato l’esperienza della vita consacrata scrivendo che seguire Cristo, come viene proposto nel Vangelo, è la “norma ultima della vita religiosa”, “la regola suprema” di tutti gli istituti (PC 2).

In definitiva le varie forme di vita consacrata “si presentano come una pianta dai molti rami, che affonda le sue radici nel vangelo e produce frutti copiosi in ogni stagione della Chiesa”1.

Nello stesso tempo l’unico Vangelo è letto e vissuto in forme sempre nuove, grazie alla testimonianza che di esso dà lo Spirito. Leggendo gli scritti e le testimonianze dei fondatori e delle fondatrici è evidente la consapevolezza che essi hanno di essere strumenti dello Spirito.

“Lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere sotto la forma del santo vangelo”, testimonia san Francesco d’Assisi, chiamando rivelazione l’impulso che lo spinge a intraprendere quel nuovo cammino nella Chiesa da cui sarebbe nato il suo Movimento.

Altri, per esprimere lo stesso fenomeno, parlano di luce, ispirazione, intuizione, visione. La Petite Soeur Magdeleine scrive che la sua Fraternità l’ha voluta lo Spirito in quanto “me l’ha ispirata con la forza dell’Amore… Non ho avuto molto da riflettere, perché tutto mi si imponeva, con la luminosità e la rapidità di un lampo”.

“Don Alberione è lo strumento eletto da Dio per questa missione — scrive lo stesso fondatore — per cui ha operato per Dio e secondo l’ispirazione e il volere di Dio”. La conclusione è comunque identica: “Tutto è opera di Dio”, sono soliti affermare.

Il Concilio Vaticano II interpreta questo comune sentire affermando che i fondatori, nel dare vita alle loro famiglie religiose, hanno agito “dietro l’impulso dello Spirito Santo” (PC 1).

Lo Spirito porta fondatori e fondatrici a vivere e comprendere la Parola di Dio dal di dentro, rendendoli sensibili a determinate dimensioni evangeliche, conducendoli ad operare quel particolare tipo di esegesi di cui parla la Dei Verbum quando, al n. 8, afferma che il progredire dell’intelligenza della fede avviene, oltre che con la riflessione e lo studio, “con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali”.

Il susseguirsi di sempre nuovi carismi può essere letto come un dispiegarsi di Cristo lungo i secoli, come un Vangelo vivo che si attualizza in sempre nuove forme, secondo quella straordinaria pagina che Chiara scrisse nel 1950 e che più volte abbiamo riportato sulla nostra rivista:

“La Chiesa è il Vangelo incarnato… Ogni Ordine o Famiglia Religiosa è l’incarnazione d’un’“espressione” di Gesù, d’una sua Parola, d’un suo atteggiamento, d’un fatto della sua vita, d’un suo dolore, d’una parte di Lui… Insomma noi vediamo la Chiesa come un Cristo spiegato attraverso i secoli”.

“Uno strumento nelle mani d’un artista”

È dunque Dio, nello Spirito, che legge e interpreta e ispira. Ma l’opera si attualizza perché il fondatore si è “abbandonato in Lui, come uno strumento nelle mani d’un artista”. Chiara sta qui comunicando la propria esperienza, come ha avuto modo di scrivere a proposito delle origine della sua Opera: “… la penna non sa quello che dovrà scrivere. Il pennello non sa quello che dovrà dipingere. Lo scalpello non sa ciò che dovrà scolpire. Così, quando Dio prende in mano una creatura, per far sorgere nella Chiesa qualche sua opera, la persona non sa quello che dovrà fare. È uno strumento. E questo, penso, può essere il caso mio”2.

Possiamo qui veder riassunto il convincimento di ogni fondatore sull’origine divina della propria famiglia religiosa e sulla propria strumentabilità, sulla grandezza dell’opera di Dio e sulla propria nullità.

“… il Signore – ha lasciato scritto nel proprio testamento spirituale il beato Giacomo Alberione – ha voluto ed ha fatto fare lui; così come l’artista prende qualsiasi pennello, da pochi soldi e cieco circa l’opera da eseguirsi, fosse pure un bel divino Maestro Gesù Cristo”.

Come non ricordare, in proposito, il funerale di Madre Teresa di Calcutta, quando fu offerta all’altare una matita, perché tale lei si sentiva nella mani di Dio che, grazie alla sua docilità, aveva potuto “scrivere” le Missionarie della Carità?

La conclusione alla quale giungono fondatori e fondatrice è sempre la stessa: “Tutto è opera di Dio”.

“Questo è il mio bambino e non un altro”

Pur dichiarando che “tutto è opera di Dio”, fondatori e fondatrice, in forza della loro indiscussa docilità e attiva risposta, si sentono, come abbiamo visto, padri e madri. La conseguenza è la consapevolezza dell’identità propria della loro opera, con “una determinata fisionomia, un suo carattere, un suo sangue”. Sentono di doverlo pubblicamente affermare ‘con la forza con la quale una madre dice: ‘Questo è il mio bambino e non un altro’”.

Ciò è particolarmente evidente per quei fondatori e fondatrici che sono all’origine di grandi movimenti ecclesiali e di Ordini che possiedono un notevole patrimonio spirituale.

“Voglio che non mi si parli di nessuna Regola – dichiara Francesco alla curia romana – né di san Benedetto, né di sant’Agostino, né di san Bernardo né di alcun altro ideale e maniera di vita diverso da quello che dal Signore mi è stato misericordiosamente rivelato”.

Ma lo stesso hanno affermato fondatori e fondatrici che hanno dato origine a opere più modeste e apparentemente meno originali. Per ognuno di loro la propria famiglia religiosa è diversa da tutte le altre, ha una propria fisionomia, una particolare ragion d’essere o un proprio spirito.

Più ancora. Ad ognuno la propria opera appare decisamente come la più bella di tutte. “Questa Religione – diceva san Vincenzo de Paoli alle Figlie della Carità – precede le altre… Essa è tale che non ne conosco di più grandi nella Chiesa”. Parlando degli Oblati di Maria Immacolata sant’Eugenio de Mazenod ripeteva a sua volta: “Non c’è nulla sulla terra al di sopra della nostra vocazione”.

La Regola è l’attestazione della irrepetibile fisionomia dell’opera a cui il fondatore ha dato vita, della sua ragion d’essere, delle modalità di perseguirne gli scopi, ed è lo strumento privilegiato per trasmettere la propria ispirazione e la propria esperienza.

Francesco d’Assisi ricorda così l’origine della sua Regola: “Lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo vangelo. Ed io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere e il signor Papa me lo confermò”.

Per Vincenzo de Paoli lo spirito del suo istituto è “contenuto e incorporato” nella Regola ed è “impossibile acquistare lo spirito della missione senza l’osservanza delle Regole”.

Per Eugenio de Mazenod nella Regola “c’è tutto quello che occorre” per essere un missionario Oblato di Maria Immacolata come lui l’ha pensato.

La Regola è la trasmissione di una esperienza capace di suscitare un’esperienza analoga. In essa vi è la particolare ispirazione evangelica dell’opera, la sua “fisionomia con caratteristiche inconfondibili”, “il particolare spirito che la informa e di cui parte dell’umanità in quell’epoca deve essere beneficata”. (Quest’ultima espressione lascia intravedere – ma il discorso ci porterebbe lontano – la valenza sociale del carisma, la capacità di informare il proprio ambiente della propria idealità operosa, così da rispondere alle esigenze in esso presenti e contribuire a creare una nuova cultura, più adeguata al messaggio evangelico).

“La madre è ripagata di tutto il suo patire”

Un’ultima nota allo scritto di Chiara. Si accenna al rapporto intimo con Dio, “Il santo ama Dio con un amore che dista dall’amore umano di quanto il cielo dalla terra”, e ai dolori e ai gaudi che ne derivano: ogni opera nella Chiesa nasce dall’intimità con lo Sposo. È un tema che ricorre spesso negli scritti di Chiara nei quali ella lascia sovente intravedere la sua stessa esperienza.

In una meditazione intitolata La vita dei santi leggiamo, ad esempio, “di abissi e di vette: abissi abissali, notti nere come l’inferno, gallerie oscure”, di un lungo lavorio da parte di Dio, fino al punto in cui nell’anima “non vive più lei, vive glorioso e forte, onorato e ascoltato, il Creatore e il Signore d’ogni cuore umano. È l’ora in cui nel santo fiorisce un divino vigore sconosciuto e insolito… E Dio l’adopera per le sue grandi opere”.

In Stelle accese in cielo eternamente, Chiara scrive ulteriormente di Dio come dell’artefice divino, che lavora i santi “limandoli, piallandoli, sfondandoli con quelle dure prove, che fanno rimanere l’uomo quasi inattivo: vivo solo al dolore, vivo all’amore. Finché purgato il cuore, l’anima, la mente, Dio dona ai santi un compito celeste. E fanno e fanno ma non fanno più essi. Fa Dio in loro e il mondo si converte”.

La mente va subito a quanto ha patito Francesco per il suo Ordine, alle opposizioni subite da Ignazio, alla “cecità” di don Alberione: “Ecco un semi-cieco che è guidato”…

Con san Paolo ogni fondatore e fondatrice può ripetere: “Figliolini miei, che io di nuovo partorisco nel dolore perché non sia formato in voi” (Gal 4, 19). È il dolore del parto che insieme alle grazie mistiche di luce concorre alla nascita di una vita nuova: “gioie e dolori non sono fine a sé stessi; sono mezzi perché la Chiesa abbia una nuova opera di Dio”.

 

1 Vita consecrata, nn. 33, 3, 25, 52

2 C. Lubich, Scritti Spirituali/1, Roma 19974, p.9.

 

 

 

 

 

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