Covid 19 e l’equilibrio fra libertà individuale e salute collettiva

Si è superata quota 5mila positivi al giorno e la percentuale rispetto ai tamponi effettuati è sempre più alta. Da una parte l'economia che rischia di collassare e dall'altra la salute pubblica. Bisogna trovare un punto d'incontro tra questi due fattori
People wear face masks to prevent the spread of COVID-19 as they stroll in downtown Rome, Saturday, Oct. 3, 2020. As of Saturday it is mandatory to wear masks outdoors in Lazio, the region that includes Rome. (AP Photo/Andrew Medichini)

L’andamento dei casi degli ultimi giorni fa paura. La preoccupazione è legittima: anche se siamo lontani dai numeri di altre nazioni europee, è innegabile l’incremento di tutti gli indicatori epidemiologici. Il trend dei nuovi casi è in forte incremento, così come il tasso di crescita degli attuali positivi e la percentuale di nuovi casi scoperti ogni 100 tamponi effettuati. I numeri sono quelli di marzo, la situazione sanitaria no.

Il profilo di gravità clinica della malattia, molto dipendente dall’età, è rimasto invariato dopo l’introduzione di protocolli terapeutici più efficaci, consolidati durante l’estate; esaurito l’effetto “si ammalano solo i più giovani“, si è stabilizzata anche la proporzione dei malati che finiscono in ospedale (intorno al 6%) e in rianimazione (intorno allo 0,5%).

Se abbiamo 5000 casi al giorno, ogni giorno servono 25 letti di rianimazione e 300 posti in area COVID, una parte dei quali sono lasciati liberi da persone che guariscono o muoiono; in Italia, secondo le previsioni del DL 34/2020, le reti ospedaliere mettono in campo 0,14 posti letto intensivi per 1000 abitanti, che devono servire per tutte le patologie critiche (ictus, infarti, interventi chirurgici complessi, traumi, altre infezioni gravi…). Se li occupiamo tutti con il COVID-19 non ci sarà spazio per curare in maniera tempestiva e appropriata queste altre patologie.

Numero di positivi in forte aumento
Numero di positivi in forte aumento

I costi sociali della malattia sono altrettanto elevati: i contatti dei casi vengono attualmente sottoposti ad un regime molto stretto di sorveglianza sanitaria, con sacrifici, rischi di marginalizzazione e isolamento sociale. Le ripercussioni lavorative, economiche e psicologiche possono essere devastanti.

Siamo dunque imprigionati in una sorta di paradosso? Le attività sociali che ci servono per vivere sono le stesse che consentono al virus di circolare e diffondersi, mentre le misure di quarantena efficaci a contenerlo sono le stesse che generano altri problemi di salute. C’è una via d’uscita, un equilibrio che funziona e che possiamo trovare? Il nostro passato è pieno di comportamenti umani che hanno provato a bilanciare questi due rischi.

Le malattie infettive sono comparse in forma epidemica fin dal momento in cui le popolazioni divennero stanziali: la scoperta dell’agricoltura e la pratica dell’allevamento gettarono le basi per la diffusione dei germi dall’ambiente e dagli animali all’uomo e poi da un individuo all’altro, in crescita rapida ed esponenziale. Non a caso la parola “epidemia” significa “sopra la popolazione”: non più il problema di un singolo, da curare e riabilitare, ma di un’intera comunità, che va prima di tutto protetta dal contagio.

Il cambio di prospettiva è radicale e molti comportamenti sociali si sono evoluti sulla spinta di questa necessità: le comunità tradizionali dell’Africa centro-orientale, terra di zoonosi virali altamente diffusive (come Ebola e Marburg) conoscono da secoli pratiche del genere, e le mettono in atto quando la malattia si manifesta nella comunità. Quei popoli, che incolpano gli spiriti maligni della foresta, attuano tuttavia pratiche come l’isolamento delle persone infette e le precauzioni da contatto (incluso il divieto di rapporti sessuali); si impongono rigidi tabù alimentari (non consumare carne di animali morti), limitazioni degli spostamenti e addirittura un rudimentale meccanismo di “coorting”, per il quale le persone guarite dalla malattia epidemica sono incaricate di prendersi cura degli altri malati.

I positivi rispetto al totale dei tamponi effettuati sono in aumento

In occidente le misure di contumacia e quarantena di merci e persone, che oggi sappiamo essere estremamente efficaci, sono nate nelle repubbliche marinare del XIV secolo in risposta all’ondata di peste polmonare proveniente dall’Asia Centrale; ancora un secolo prima, all’epoca delle Crociate, nascevano negli ospizi per i pellegrini i padiglioni di isolamento, per separare i malati di lebbra dagli altri viandanti (i lazzaretti del Manzoni hanno questa origine).

Nel 1400 la città di Firenze, in Toscana, è stata il primo Comune italiano a istituire specifiche magistrature di sanità, con il compito di tracciare i movimenti e i contatti dei malati, isolarli e definire le prime misure di contumacia della storia. Entro il 1600 quasi tutti gli stati Italiani avevano adottato sistemi anche molto sofisticati di sanità pubblica, con meccanismi di funzionamento non molto diversi da quelli odierni.

Sarebbe però sbagliato credere che in passato le cose funzionassero a meraviglia: le misure di prevenzione collettiva, che fossero contumacia e isolamento o più semplici prescrizioni comportamentali, non sono mai state accettate di buon grado dalla popolazione: gli interessi economici  e l’insofferenza alle limitazioni delle libertà personale sono sempre stati un forte ostacolo alla loro applicazione, in tutte le epoche. L’ultima grande epidemia di peste polmonare del continente europeo, la peste di Marsiglia del 1720 (responsabile di oltre 100.000 morti in tutta la Provenza) ebbe origine dalla riduzione del periodo di quarantena imposto ad un mercantile, proveniente da un’area infetta del medio oriente, per evitare che il prezioso carico si deteriorasse. Le fonti riportano anche che le misure di contenimento, successive ai primi casi, furono parziali e tardive per via della forte opposizione dei ceti mercantili (oggi diremmo: delle lobby del commercio).

Molti pensano che nel mondo odierno, sia a livello culturale sia tecnologico, esistano opportunità e prospettive totalmente nuove rispetto al passato, che possono ampliare opzioni a disposizione. Sul versante delle cure e del vaccino abbiamo oggi molte più risposte di quelle che avevano i nostri bisnonni all’epoca della Spagnola; così come i moderni sistemi informatici possono fare moltissimo per il tracing dei contatti e il controllo dei focolai. Quello che rimane da capire è se abbiamo anche modelli sociali all’altezza della sfida che ci attende. Saremo capaci di trovare un equilibrio migliore dei modelli sperimentati in passato per coniugare libertà individuale e sicurezza collettiva?

Una prospettiva interessante di riflessione viene dagli studi sui modelli delle piccole comunità: a differenza delle relazioni “globalizzate”, dove l’interdipendenza delle economie e dei sistemi produttivi è vista come una minaccia, nella dimensione locale il co-interesse è una realtà quotidiana e concreta; gli obiettivi comuni sono chiaramente percepiti e l’interesse collettivo si allinea più facilmente con quello del singolo. Qualcosa, insomma, che assomiglia alle relazioni (sane) all’interno di una famiglia, dove i conflitti individuali non si annullano, ma sono gestiti e superati in vista di un progetto di coesistenza e sviluppo comune.

Questa prospettiva, che sembra appartenere al campo del semplice buon senso, o al massimo interessare l’ambito della società civile, non è priva di interesse scientifico: in letteratura si esplorano i risvolti sugli esiti di sanità pubblica dell’applicazione di un “paradigma della reciprocità”, dove l’organizzazione dei servizi, l’approccio alla diagnosi e la condivisione delle scelte terapeutiche tengono conto di principi come la centralità della persona, l’empatia, la ricerca del bene comune.

Promuovere la fraternità come valore fondante della medicina potrebbe rilevarsi un paradigma culturale privilegiato, una strategia vincente per affrontare le attuali sfide della globalizzazione anche nel campo della salute. Molti cambiamenti di paradigmi scientifici evolvono in tempo di crisi: forse anche questa pandemia comporta, fra tante sofferenze, alcune opportunità del genere, che vale la pena di cogliere.

 

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