La ragione del dolore

Non cerca risposte, non chiede perché, scrive. La vera poesia del mistero di Paola Nepi.
Arte sculture

È un bel tipo Paola Nepi, un temperamento, direi, da amazzone. Colpita, lei direbbe “profanata”, dalla distrofia muscolare amiotrofica già a 9 anni (c’è una foto che la ritrae giovane bella con uno sguardo ironicamente desolato) oggi a 66 anni vive per le macchine che la tormentano-salvano continuamente, e all’aggravarsi quasi fatale diventa poeta – almeno in alcuni testi, ma tutto il suo diario in versi è un documento eccezionale per assenza di autocommiserazione ed esattezza di cronaca fisico-spirituale.

 

Il titolo poi è un capolavoro: La ragione del dolore (Romena), che intende precisamente il contrario di quello che dice, non essendo una risposta ma neppure una domanda sottintesa, essendo (e questa è originalità) l’adesione al suo essere per forza così, come un cavaliere medievale “aderisce” all’avventura di vita o di morte che lo aspetta: «Per cosa posso vivere io/ se non per il dolore?»; «La disperata allegria/ che ha sempre fatto casa in me,/ mi ha fatta viva»; «io son solo corpo – carne – dolore –/ senza ragione alcuna/ come tutto il dolore sulla terra», mentre «gli altri hanno corpo e ragione».

Dunque Paola non la butta facilmente sullo spirituale: lei ha ragione e dolore, il suo dolore non ha ragione (splendida intuizione): «Per me altro scampo non c’era che Amarlo!» – così, con la maiuscola.

 

La scienza non le risponde, «tantomeno Iddio», e lei, con due dita rattrappite, sente di avere «quell’aria benedicente che spetta ad uomini di chiesa,/dal più alto: Santo e Benedetto, all’ultimo della gerarchia».

Scherza Paola, ma non irriverente e men che meno blasfema: questo, anzi, è proprio la sua soglia d’entrata al mistero: «A nessun dio ho mai chiesto/ il perché di questa tribolata vita». Mi crederà il lettore se dico che la capisco bene e che questo non-chiedere è proprio il passo, difficile e vero, del mistico? Spero, e vado avanti a leggere Paola.

Con la sua “forza morganatica” che sempre la sfida “a cercare la vita”, lei prova a guardare, cioè ad andare «oltre quel muro di morte/ che mi sta davanti»: con la perfetta vittoria di chi perde senza lamentarsi; chiedendo fermamente senza implorarlo «il regalo di un sorriso».

 

Trovo sublime la riduzione autoironica e sincerissima di sé stessa: «Penso, forse a sproposito,/  all’eucaristico rito del mio corpo fatto pane» (lo dicevo che si tratta di vera mistica). A questo punto Paola trova anche la vera poesia (vedi riquadro), che è come sempre un «saper perdere» distillato «fino a che sia limpido», direbbe Mario Luzi.

Un particolare-universale che mi intriga molto è il rapporto di lei con un pioppo ondeggiante: «Son qui a dialogar con te, fedele amico che,/ pari a me, non ti muovi dalle tue radici»; «Amato amico lasciami sognare!/ Io sono quel vento, quella musica/ che ti fa danzare,/ io, le mie lacrime, son quella pioggia/ che ti offre refrigerio».

In questa danza comune l’immobile Paola, scommetto, non si sente più “sbagliata”, mancante della «gioia di posar le cose/ al posto giusto, in armonia col tutto».

 

ALCUNI VERSI

 

11 marzo 2007

 

Sono pianta vacua di germogli.

 

Solo radici ho visto,

piano piano dissolversi

nel buio della terra.

 

Anche per questo

Non temo il silenzio.

 

 

15 marzo 2007

 

Nove anni e il dolore mi entrò addosso.

 

Da allora mi tiene:

tenace – instancabile – continuo.

 

Per me altro scampo non c’era che Amarlo!

 

Fra i pochi, fra i mille,

farne impareggiabile amore.

 

 

19 marzo 2007

 

Come nido

 

Come nido solitario

Su un albero spoglio,

sovente mi ravviso.

 

La casa c’è

Ma non c’è riparo.

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