La questione rom
Dal disagio all’angoscia. È il percorso psicologico che, ormai da tempo, hanno compiuto gli abitanti di certe degradate periferie di tante città italiane. Gli esperti parlano di marcati stati d’ansia. Lo sanno bene quanti attraversano di fretta quartieri popolati da immigrati. Li manifestano quelli che rientrano in casa sempre prima che faccia buio. Li esprimono gli sguardi preoccupati di donne che, salite sui bus, speradi no di non ritrovarsi a scendere da sole al capolinea. La convivenza è stata lacerata dalla metamorfosi di certe periferie. I residenti si sentono indifesi e impotenti davanti all’invasione, subìta o percepita, di spacciatori e ladri, rapinatori e prostitute, trafficanti e transessuali. Non sono più sicuri in strada, ma nemmeno tranquilli in casa. La paura cresce, anche se non rispecchia un aumento effettivo della criminalità, come documentano le più recenti ricerche. Cresce e può dare la stura a sentimenti razzisti e a comportamenti violenti mai giustificabili. Lo abbiamo visto in queste ultime settimane. Soprattutto per il moltiplicarsi di brutali episodi nei confronti dei nomadi in varie città. Il fatto più grave è accaduto a Ponticelli, periferia di Napoli, dove sono stati scacciati rom e sinti da tre campi nomadi e bruciati i loro miseri ricoveri da parte di gente inferocita. Era la reazione ad un (supposto) tentativo di rapire una bambina di sei mesi ad opera di una nomade sedicenne. La vicenda non è più così chiara come riferita all’inizio. La madre della neonata ha fornito versioni contraddittorie e sul fatto è spuntata l’ombra della camorra. Linciaggio etnico Non credo al tentativo di rapimento – afferma convinta Patrizia Bevar, casalinga, quattro figli, da 12 anni volontaria nell’assistenza ai rom del quartiere partenopeo di Scampìa -. Il male non lo fanno dove risiedono, perché sanno che si ritorce subito contro tutto il gruppo. Anche molta gente di qui non lo crede. Pensa piuttosto che molte cose siano state manovrate dalla malavita. Ai supposti rapimenti di bambini non crede nemmeno don Pietro Gabella, che da 36 anni vive nei campi nomadi. Guardi, io che ci sto assieme conosco il carico dei loro limiti molto più di coloro che ne parlano adesso, ma non sono ladri di neonati. Eppure, nell’immaginario collettivo alligna questa loro propensione al più turpe dei reati, tanto che don Pietro – sino a due mesi fa responsabile della pastorale per i rom e sinti della Fondazione Migrantes, l’organismo ecclesiale a servizio dei nomadi -, commissionò all’università di Verona un apposito studio sui presunti episodi accaduti negli ultimi 25 anni. Quali i risultati? Saranno estesamente presentati dopo l’estate, ma don Pietro ci anticipa un dato cruciale: È stato riscontrato che non esiste un solo caso in cui sia stato commesso un rapimento da parte di rom e sinti. Siamo oggetto di un linciaggio etnico, esordisce Bruno Morelli, etnia rom, pittore e scultore, autore del recente libro L’identità zingara. Siamo una minoranza bistrattata, censurata, sempre esclusa dalla dittatura mediatica. Lei è il primo giornalista che si fa vivo ed è interessato a sapere cosa pensiamo . È preoccupato soprattutto del clima forcaiolo, esploso in una parte della gente, che giustifica e quasi esalta propositi di repressioni generalizzate e promesse di espulsioni di massa. Per chi delinque, la legge esiste per rom e non rom, ma nessuna demonizzazione di tutti noi . Siamo arrivati in Europa nel 1300. Le società hanno sempre cercato di assimilare le minoranze – spiega Morelli -, di eliminare le diversità, ma non è vero che i rom non sono integrabili. Io ne sono un esempio e con me tanti rom sedentarizzati, che lavorano nell’artigianato e nel commercio, nelle giostre e nei circhi. Bisogna però favorire l’integrazione di chi non ha mai avuto vita facile. Pregiudizi e violenze Sgomento, rabbia, paura di andare a dormire temendo raid notturni e lanci di bottiglie incendiarie. Questo si vive adesso nei campi nomadi. In alcune scuole le bambine rom hanno lasciato la classe per paura di gesti violenti, in altre i compagni le hanno accusate di avere genitori che rubano bambini. Vediamo franare quanto costruito camminando insieme con i rom – prosegue don Pietro -. Noi che viviamo con loro stiamo costatando la gravità degli effetti sui rom. Sappiamo bene che nei campi nomadi la percentuale di devianza è tutt’altro che trascurabile, come numerosi sono gli ostacoli frapposti all’inserimento scolastico e lavorativo, e altrettanto frequenti sono, ad esempio, gli allacciamenti abusivi alla rete elettrica e idrica. Ma tutto questo e altro ancora non legittima la cancellazione, nei fatti, di sacrosanti princìpi di convivenza civile. Il primo dei quali è che la responsabilità penale di un reato è individuale e non può essere im- putato a tutta una comunità. È una generalizzazione scorretta, alimentata dai mass media, che finiscono per istigare all’odio razziale . Eva Rizzin ha le idee chiare. Etnia sinti, cittadina italiana, dottorato di ricerca sull’antiziganismo, ha fondato a Mantova un centro di ricerca sulle discriminazioni subite da rom e sinti: Noi per primi chiediamo certezza della pena per chi, tra i nostri, commette reati, ma domandiamo pure certezza della colpa. Per lei, la causa di tutto sta nella mancanza di conoscenza e di confronto della gente con rom e sinti, che alimenta i pregiudizi. Non siamo nomadi, come si pensa, e nemmeno stranieri, perché il 60 per cento di noi ha la cittadinanza italiana. E, per favore, non chiamateci zingari, termine dispregiativo . Come superare il terribile momento? Abbassare i toni – suggerisce la Rizzin -, riflettere, dialogare, favorire l’integrazione, valorizzare le diversità. Integrazioni in atto Patrizia Bevar fa presente un errore di metodo: Tanti progetti su di loro, ma mai con loro. Così non gli viene data la possibilità di diventare soggetti. Le richieste di permessi di soggiorno per regolarizzare la propria posizione e iniziare un’attività hanno tempi lunghissimi di attesa. Ma non è tutto. I rom del campo di Scampìa, racconta la volontaria, hanno presentato domanda per l’istallazione di contatori elettrici: un gesto significativo. Riunioni, fiaccolate, incontri in prefettura. Tutto finito nel nulla. Dove invece sono state avviate collaborazioni tra nomadi e enti, si sono aperti spiragli di integrazione. A Catania venti bambini rom vengono accompagnati dai loro campi alle rispettive scuole, poi tornano a casa dopo aver pranzato e svolto i compiti. A Verona, i rom hanno accettato di lasciare un campo e trasferirsi in appartamenti. Due esempi tra gli altri. Ma adesso tutto è messo a dura prova dall’onda montante della paura nei confronti dei nomadi. A Roma, Milano e Napoli sono previsti appositi commissari e lo smantellamento dei campi abusivi. Dove andranno quei rom? Serve invece lavorare in rete per ottenere risultati con i nomadi e gli immigrati, puntando sulla collaborazione internazionale, perché il problema può essere affrontato con efficacia solo a livello europeo. Ma ciò che ci preoccupa maggiormente è il silenzio o la blanda reazione davanti agli episodi di caccia al rom. Non meno inquietante del mancato o scarso dovere culturale, ancora prima che etico o religioso, di distinguere tra la responsabilità penale dei singoli e l’intera comunità d’appartenenza, che non può essere discriminata in blocco, colpevole per il solo fatto di esistere. Don Pietro Gabella la butta là provocatoriamente, ma non troppo: Se non ci fossero i rom, bisognerebbe inventarli: sono la cartina al tornasole dello stato di salute di una società. Qui è il punto. Non si nega che le nostre città abbiano un problema di diffusa criminalità, ma le misure di polizia e quelle giudiziarie sono solo una parte della risposta, non certo la soluzione. Il senso di aggressione che avvertiamo deriva da incontestabili fatti reali, ma – secondo noi – ha radici nello sfaldamento del senso di comunità. La politica, soprattutto in questi frangenti, ha il compito, in collaborazione con tutta la ricchezza della società, di offrire prospettive ulteriori rispetto ai provvedimenti immediati di ordine pubblico. CHIESA LA REPRESSIONE NON RISOLVE In riferimento ai roghi nei campi rom, il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, è stato perentorio: Occorre neutralizzare gli estremismi, che non possono dettare legge a nessuno e non vanno considerati come la realtà totale di un popolo. E occorre, in positivo, creare condizioni di accoglienza per tutti quelli che rispettano le regole della convivenza e si impegnano per una reale integrazione. Il giro di vite sugli immigrati non può che preoccupare chi è impegnato sul fronte della solidarietà – commenta mons. Vittorio Nozza, direttore della Caritas italiana -. L’immigrazione clandestina è un problema che non può essere ignorato, ma non si risolve solo con interventi polizieschi. Sono anni che vivo queste tematiche e ogni volta che all’immigrato si è offerta una possibilità d’integrazione, lavoro, casa, scuola, i problemi sono stati sempre risolti e ne abbiamo tratto vantaggi tutti. SEVERE MISURE DEL GOVERNO Arginare le paure. Era la promessa in campagna elettorale ed è stato l’obbiettivo delle misure sulla sicurezza approvate dal Consiglio dei ministri nella sua prima seduta, svoltasi a Napoli. Simbolica la scelta della città, di forte impatto culturale i provvedimenti adottati, che si affidano a soluzioni severe in risposta ad una diffusa domanda di Stato capace di fermezza. Entrano subito in vigore le norme che facilitano l’espulsione degli stranieri senza permesso e che commettono reati punibili con pene superiori ai 2 anni (prima erano 10); condanna da 1 a 4 anni per l’immigrato che trasgredisce al decreto di espulsione o di allontanamento (vale quindi anche per i cittadini comunitari); per lo straniero che commette un reato in stato di clandestinità è previsto l’aumento di un terzo della pena. Per chi affitta la casa a immigrati irregolari, reclusione sino a 3 anni e confisca dell’abitazione. Inoltre, i poteri dei sindaci, sinora circoscritti al pericolo di incolumità pubblica, vengono estesi alla sicurezza urbana, anticipando una possibile trasformazione della polizia municipale. Il provvedimento di maggior impatto è tuttavia quello che introduce il reato di immigrazione clandestina. Il reato è punibile con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Ci sono dubbi sulla legittimità della norma, ma anche interrogativi di merito e di metodo, perché si scarica sul sistema repressivo un problema sociale e diplomatico. Per ogni barcone di clandestini, si dovrebbe istituire una sorta di maxiprocesso. Il testo è tuttavia contenuto in un disegno di legge e quindi sarà sottoposto al vaglio (e ai possibili emendamenti) del Parlamento, dove le diverse sensibilità, che si sono già espresse, potranno apportare integrazioni migliorative. Preoccupazione anche per l’allungamento dei tempi di sosta a 18 mesi nei Centri di permanenza temporanea che sinora ospitavano i clandestini: la conseguenza è la trasformazione dei Centri stessi da luogo di prima accoglienza a strutture detentive. Ci colpisce, infine, una decisione apparentemente marginale, ma rivelatrice d’una impostazione culturale: per gli immigrati regolari sono state stabilite limitazioni in materia di ricongiungimento familiare. Eppure, è proprio la famiglia che salvaguarda l’individuo, che nella tessitura dei rapporti quotidiani favorisce l’integrazione e concorre a stabilizzare la comunità.