La questione di Hagya Sophia
Nel luglio del 2009 ero in visita a Istanbul. Una sera alcuni amici musulmani mi avevano invitato al ristorante. C’era un tavolo prenotato per noi, ma prima che potessimo sederci, passarono una decina di minuti. Il mio ospite, infatti, aveva ingaggiato una lunga discussione con il cameriere, prima, e con il padrone del ristorante, dopo. Alla fine ci sedemmo a un tavolo diverso da quello che ci era stato assegnato. Il problema era nato dal fatto – me lo spiegarono sottovoce quando tutto era concluso – che il mio ospite voleva parlare di religione durante la cena. Infatti, seguace di una confraternita sufi mi aveva invitato per condividere la sua esperienza spirituale. La laicità dello stato turco, allora, proibiva non solo atti di culto in pubblico, ma anche che si parlasse di religione. Era pericoloso fare discorsi come quelli che ci apprestavamo ad affrontare in quel ristorante. Sebbene il tavolo fosse distante da altri ospiti, ogni volta che il cameriere arrivava con le diverse portate il discorso cadeva, per riprendere non appena si era allontanato.
Una seconda scena, proprio di questi momenti in cui mi accingo a iniziare questo pezzo. Ho ricevuto questo messaggio via Whatsapp da un amico in visita in Turchia. «Conosco questo Paese e ho imparato ad apprezzare la ricchezza della sua cultura e la sua squisita ospitalità. Oggi ho voluto mettermi in fila per visitare Aya Sophia (come la chiamano i turchi ndr) a due giorni dalla conversione in moschea. Sono stato molto colpito nel vedere la folla intrepida di turchi che entrando gridava a squarciagola Allah’u akbar (Dio è grande) quasi in un clima di riconquista del luogo sacro. Ammiro la devozione dei fratelli e sorelle musulmani, ma oggi in questa concitazione ho avuto l’impressione che ci fosse ben poco di religioso».
In queste due immagini, a tinte così contrastanti, riprese a dieci anni di distanza l’una dall’altra, sta tutto il cambiamento di un Paese ponte fra Oriente e Occidente, alcuni anni fa potenziale new entry in Europa. La Turchia oggi si è ormai lasciato alle spalle la laicità di Kemal Ataturk per una pseudo religiosità che sconfina nel fanatismo nel nome del suo attuale presidente Erdogan. Il potere di quest’uomo, passato dal ruolo di sindaco di Istanbul a, di fatto, presidente a vita del suo Paese, sembra essere la chiave di lettura di questa scelta, voluta da lui e da lui realizzata nel nome dell’islam e del nazionalismo turco. Il piano di Erdogan, chiaro ormai da anni, è quello di riportare il Paese ai fasti dell’impero ottomano. Un processo ovviamente chimerico quello di pensare che nel 2020 si possa ripristinare, sia pure con nuove modalità, l’autorità politico-amministrativa e quella di immagine di uno degli imperi più grandi della storia. Se la cosa non ha senso a livello internazionale è però un forte collante interno in un Paese con una grande sensibilità al nazionalismo.
Ma non tutto sta funzionando come Erdogan vorrebbe. Infatti, nelle ultime elezioni locali, l’AKP, il suo partito, ha perso centri importanti come Istanbul ed Ankara a conferma che l’opinione pubblica che pensa non dalla parte del suo disegno megalomane. La mossa di riportare Hagya Sophia ad essere luogo di culto musulmano può, dunque, essere letta come un tentativo per riprendersi la fetta di Turchia che ormai lo ha abbandonato e che qualche osservatore arriva a quantificare nel 45% della popolazione, anche se le statistiche sono piuttosto nebulose. Ancora a livello interno, non deve passare inosservato un dettaglio importante. La decisione riguardo ad Hagya Sophia non è stata realizzata a mezzo di decreto presidenziale. Erdogan ha voluto una decisione del Consiglio di Stato e così facendo ha identificato una sua idea – lui stesso ha confessato che era un sogno che aveva fin da bambino – di un islam nazionale e nazionalista con l’immagine dello Stato nazionale.
È necessaria, inoltre, una lettura sul piano della geopolitica dell’Islam che da anni vive delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran o, se si vuole, fra wahhabismo e sciismo khomeinista. Erdogan da tempo si è inserito in questo panorama cercando di proporre un terzo polo nella geopolitica islamica: la Turchia appunto, che ha abbandonato la laicità che aveva ricevuto da Ataturk per scendere nuovamente nell’agone del confronto politico-religioso. In tal senso, potrebbe apparire chiara la decisione che riguarda il ritorno di Aya Sophia a luogo di culto musulmano. Sarebbe un gesto plateale per proporsi come vero paladino dell’islam, fuori dei giochi fra wahhabiti e sciiti. In altre parole, un tentativo nella speranza di attirare il gradimento di quelli che vorrebbero restare neutrali fra i musulmani. Tuttavia, come è suo stile, Erdogan lo fa cercando di soffiare sul fuoco delle polarizzazioni che caratterizzano il Medio Oriente e il mondo musulmano in generale. Di fatto, il presidente turco non fa altro che proporsi a capo di un islam antimoderno perché nazionalizzato e immagine di conquiste e riconquiste, che ricordano le crociate.
Sono molte le voci contrarie a questa decisione che, in questi giorni, si sono levate anche all’interno del mondo musulmano. La più autorevole è stata, senza dubbio, quella di Mohamad Abdel Salam, segretario generale dell’Alto Comitato per la Fratellanza Umana (Hchf), formato da leaders religiosi che si richiamano al Documento sulla Fratellanza umana firmato da papa Francesco e l’imam al-Tayyeb ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Abdel Salam, consigliere del Grande imam di al-Azhar, Ahmed al-Tayyeb, e del Consiglio Musulmano degli anziani, ha firmato una nota a sostegno della richiesta del Consiglio Mondiale delle Chiese che si era rivolto a Erdogan affinchè Aya Sophia potesse mantenere la sua vocazione a essere «luogo di apertura, incontro e ispirazione per persone di tutte le nazioni e religioni». Inoltre, l’Hchf nella sua dichiarazione ribadisce che i luoghi di culto devono sempre rimanere un messaggio di pace e amore per tutti i credenti, invitando «tutti a evitare qualsiasi passo che possa minare il dialogo interreligioso e la comunicazione interculturale e che possa creare tensioni e odio tra i seguaci di diverse religioni, confermando la necessità dell’umanità di dare priorità ai valori della convivenza». Fra i Paesi musulmani Qatar, Libia ed Iran hanno approvato l’ “atto coraggioso” del premier turco, mentre Emirati Arabi, Arabia Saudita ed Egitto lo hanno tacciato come tentativo di sfruttare l’Islam per recuperare consenso interno. L’Europa, a parte la Grecia direttamente chiamata in causa da motivi storici ben chiari e da antiche tensioni mai sopite con il vicino turco, è rimasta in silenzio. Eppure, solo qualche anno fa il Paese sembrava sull’orlo di entrare nell’Unione Europea. La situazione attuale dimostra ancora una volta lo stato confusionale del nostro continente preoccupato in questo momento solamente dei fondi da assegnare per il post-virus. Con tutta probabilità Erdogan sperava in un silenzio di questo tipo. Di ben altra natura quello brevissimo ma pregno di significato di papa Francesco, dopo quelle poche parole pronunciate a braccio: «È un grande dolore». Nel 2014 quando Bergoglio si era recato ad Ankara e Istanbul si era rivolto a Erdogan sottolineando come il suo Paese «per la sua storia, in ragione della sua posizione geografica e a motivo dell’importanza che riveste nella regione, ha una grande responsabilità: le sue scelte e il suo esempio possiedono una speciale valenza e possono essere di notevole aiuto nel favorire un incontro di civiltà e nell’individuare vie praticabili di pace e di autentico progresso». Senza dubbio la scelta di Erdogan ha tradito questa vocazione.