La questione della guerra nel cristianesimo delle origini

Guerra e disobbedienza. Alla radice di un dibattito sempre attuale (nel campo morale, sociale e politico) che affonda le radici nei primi secoli del cristianesimo fino all’Editto di Costantino del 313  
Guerra e coscienza AP Photo

Cristianesimo e impero, un rapporto difficile

Nella Roma antica, soprattutto nell’età imperiale, la tolleranza è una prassi normale in campo religioso: numerose sono infatti le divinità oggetto di culto. Vi è inoltre grande apertura verso i culti forestieri e Roma è disponibile ad accogliere i valori delle civiltà dei popoli che conquistava o con cui veniva in contatto. La base del tessuto statale romano è però rappresentata da un punto ben preciso, su cui non è possibile tollerare posizioni diverse: l’identificazione fra la sfera politico – civile e quella religiosa. L’elemento religioso è, per il mondo romano, garante del patto sociale. Espressione di questo vincolo è il culto della dea Roma e del Genio dell’Imperatore. Su questo aspetto lo Stato pretende il consenso esplicito dei suoi sudditi.

Il cristianesimo, con l’adorazione di un unico Dio, che viene presentato come infinitamente superiore a tutte le divinità pagane ritenute false ed inesistenti, appare subito come qualcosa di pericoloso. Si tratta di una proposta religiosa del tutto nuova, che si pone contro la tradizione religiosa romana e che rifiuta il culto dovuto agli dèi. In particolare il cristianesimo non accetta di considerare l’imperatore come una divinità, mettendo così in discussione uno dei cardini fondamentali dell’impero romano. L’inevitabile urto è dovuto anche al fatto che la concezione cristiana è quella di una religione non soggetta alla sfera politica, esattamente l’opposto di quanto si pensa a Roma, dove l’imperatore ha l’ultima parola anche in campo religioso e dove il potere civile vanta fondamenti religiosi.

I cristiani chiedono solamente di poter professare liberamente la propria religione e si dichiarano fedeli al precetto evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”(Matteo 22, 21), ma ben presto sono chiamati a scelte dolorose. Troppo diversi sono i valori dello Stato romano rispetto a quelli della nuova religione: l’impero romano apprezza la ricchezza, la forza, la potenza; il cristianesimo invece parla di amore, di povertà, di mitezza. L’impero romano ha affermato la propria superiorità e il proprio primato nell’area mediterranea grazie all’uso della violenza e alla forza del proprio esercito; il cristianesimo parla di fratellanza universale e ripudia la violenza.

La reazione delle autorità romane di fronte alla nuova religione, che preoccupa anche in considerazione del fatto che si diffonde sempre più, si sviluppa secondo due direttrici: la prima duramente repressiva, con violente persecuzioni; la seconda tesa a normalizzare i rapporti con i cristiani, riassorbendoli entro la realtà dell’impero. Nei primi secoli dopo Cristo periodicamente prevale l’una o l’altra di queste due posizioni, fino all’avvento al trono di Costantino che, con l’editto di Milano del 313, sancisce la libertà di culto per i cristiani.

La lettera a Diogneto

Questo scritto, proveniente forse dall’ambiente culturale alessandrino, è databile tra la fine del II e gli inizi del III secolo. Si tratta di un testo importante poiché presenta un quadro esauriente in merito alla posizione dei cristiani nel mondo e al rapporto con l’autorità.

L’autore afferma che i cristiani non costituiscono un popolo a se stante, appartato e chiuso, bensì inserito nella comunità, ai cui costumi e usi si uniformano e le cui leggi rispettano. Tuttavia per i cristiani l’orizzonte ultimo non è quello terreno, bensì quello celeste. I cristiani dunque vivono nel mondo, ma protesi verso qualcosa di più grande. Questo superamento delle realtà terrene, nei loro vari aspetti anche politici, sta a significare che per i cristiani vi è qualcosa di più importante dello Stato, a cui comunque cercano di essere fedeli.

«I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per abiti. Non abitano in città proprie, né parlano un linguaggio particolare e la vita che conducono non ha nulla di speciale. La loro dottrina non è frutto di immaginazione o prodotto del pensiero di spiriti indagatori, e non aderiscono, come fanno alcuni, a correnti filosofiche umane. Abitano in città greche e barbare, come a ciascuno è toccato in sorte, e si adattano per i vestiti, per il cibo e per tutto il resto, alle usanze locali, ma nello stesso tempo manifestano il carattere mirabile e, a detta di tutti, paradossale, della loro condizione di cittadini. Abitano nella propria patria, ma come stranieri; partecipano alla vita pubblica come cittadini e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i neonati. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con la propria vita superano le leggi. Amano tutti, ma da tutti sono perseguitati. Non sono conosciuti, ma sono condannati; sono uccisi, ma conservano la vita. Sono poveri, ma rendono ricchi molti; mancano di tutto, eppure sovrabbondano di ogni cosa»[1].

Le accuse di Celso ai cristiani e la risposta di Origene

Contemporaneamente all’aggravarsi della situazione difensiva dell’impero, il potere imperiale, proprio negli ultimi anni del II secolo, interviene, tramite uno dei suoi maggiori esponenti, Celso, a richiamare i cristiani ad una più leale assunzione di responsabilità di fronte alle sempre più forti minacce che gravavano lungo i confini. I cristiani sono accusati infatti di avere uno scarso senso dello Stato e una proclamata ostilità verso il servizio militare.

Il grande teologo alessandrino Origene (morto nel 253) così riassume le accuse rivolte ai cristiani: «Celso ci esorta a recare aiuto all’imperatore con tutte le nostre forze e a collaborare con lui nelle giuste imprese, a combattere con lui, stare nel suo esercito, se egli lo esige, e militare insieme a lui»[2]. La risposta di Origene alle accuse di Celso arriva diversi anni dopo, quando nuovamente i cristiani sono presi di mira poiché sospettati di scarsa lealtà e fedeltà all’imperatore.

La posizione di Origene certamente riassume in sé quelle diffuse da tempo all’interno della Chiesa. I cristiani, per Origene, sono figli della pace e pertanto non sanno fare la guerra; il loro combattimento viene operato con le armi della preghiera. Scrive Origene: «Bisogna rispondere (a Celso, ndr) che quando viene l’occasione noi rechiamo agli imperatori un aiuto, per così dire, divino, rivestendoci dell’armatura di Dio (Efesini, 6, 11). E questo noi facciamo in quanto siamo persuasi della parola apostolica che dice: “Vi esorto dunque prima di tutto a fare preghiere, supplicazioni, invocazioni, azioni di grazie per tutti gli uomini, per i re e per quelli che stanno in posizione elevata” (1 Timoteo 2, 1-2). E quanto più uno coltiva la pietà, tanto più egli riesce efficace nel suo aiuto ai regnanti, assai più dei soldati che escono ed uccidono più nemici che possono.

E inoltre anche questo si potrebbe dire agli stranieri della fede, che ci chiedono di combattere per il bene comune e di uccidere gli uomini: anche quelli fra di voi, che sono sacerdoti di talune immagini e guardiani dei templi di quelli che voi ritenete divinità, conservano la loro destra pura da macchia, per i sacrifici, affinché possano offrire i sacrifici tradizionali a quelli che voi chiamate dèi, con mani nette di sangue e pure di uccisioni. E in nessun caso, quando sopravviene la guerra, voi arruolate anche i sacerdoti! Se tutto ciò dunque è logico, quanto più è logico il fatto che, quando altri combattono, anche i cristiani combattono, come sacerdoti di Dio e servitori di Dio, mantenendo pura la loro destra, ma lottando con le preghiere a Dio a favore di coloro che combattono con giustizia, affinché tutto ciò che si oppone ed è ostile a quelli che operano giustamente possa essere sconfitto! Inoltre, con le nostre preghiere, noi, distruggendo tutti i demoni che suscitano le guerre e fanno violare i giuramenti e turbano la pace, rechiamo un maggiore aiuto ai regnanti di quelli che apparentemente fanno la guerra. Noi combattiamo ancora di più per l’imperatore: e se non combattiamo come soldati accanto a lui, anche se egli lo esige, noi combattiamo per lui, allestendo un’armata speciale – quella della pietà – per mezzo delle nostre suppliche a Dio»[3].

La Chiesa delle origini di fronte al problema della guerra

 Origene esprime una visione che, fino a Costantino, era condivisa nella Chiesa primitiva. Per Tertulliano, ad esempio, il mestiere del soldato non si differenzia da quello dei gladiatori e dei briganti[4]; per Arnobio la vita militare non è tanto occasione di peccato, quanto il peccato stesso[5]; per Lattanzio la pace è fonte di giustizia e di ogni bene, mentre la violenza e la guerra non fanno che appagare gli istinti più bassi[6]; per Cipriano, vescovo di Cartagine, non vi può essere separazione fra morale pubblica e privata, chiamando delitto ciò che viene commesso dai singoli e invece atto di valore ciò che è compiuto per ordine dello Stato[7].

Sintetizzando possiamo dire che il cristiano, nel periodo che precedette la “svolta costantiniana” del 313, «ripudia la guerra tout-court, sostituendole l’immagine di una milizia celeste. L’unica guerra concepibile è quella contro il male; l’unico soldato concepibile è il cristiano sulla via della santità»[8].

Si afferma così nel mondo antico una sorta di nonviolenza cristiana, che si connota in generale come scelta di non rendere mai male per male, come rifiuto assoluto di versare sangue umano, preferendo essere uccisi piuttosto che uccidere e infine, in particolare, come rifiuto di usare le armi contro altri uomini, ossia come una vera e propria obiezione di coscienza al servizio militare. Con l’editto di Milano del 313 vi sarà una svolta radicale: «Il soldato cristiano non è più militante contro satana e il male, ma contro gli eretici e i barbari»[9].

 L’avversione precostantiniana per la violenza e per il servizio militare è presente anche a livello disciplinare: nella Tradizione Apostolica, una delle più importanti costituzioni ecclesiastiche dell’antichità, datata tra la fine del II e gli inizi del III secolo, vi sono in merito parole molto chiare. Questo documento innanzitutto prende in considerazione il caso del soldato che durante il suo servizio si converte al cristianesimo e non può dimettersi dall’esercito. «Il soldato subalterno non uccida nessuno. Se riceve un ordine del genere, non lo esegua e non presti giuramento. Se non accetta tali condizioni sia rimandato»[10]. Il soldato divenuto cristiano può pertanto continuare a prestare il proprio servizio sotto le armi, a condizione di astenersi dal compiere atti di violenza e dal mettere a morte qualcuno. Vi è qui la distinzione fra il militare, consentito ai soldati convertitosi durante il servizio, e il bellare, comunque proibito. Drastica è invece l’esclusione e la scomunica nei confronti dei catecumeni e dei fedeli che vogliono divenire soldati: «Il catecumeno e il fedele che vogliono dedicarsi alla vita militare siano mandati via perché hanno disprezzato Dio»[11].

 

Per saperne di più (oltre a rimandare alla fonte degli scritti di patristica pubblicati da Città Nuova, ndr, si veda ad esempio ultima riedizione de La lettera a Diogneto)

E. Pucciarelli (a cura di), I cristiani e il servizio militare. Testimonianze dei primi tre secoli, Nardini, Firenze 1987; Anselmo Palini, I primi cristiani, la guerra, il servizio militare, in AA.VV., Comunità cristiane per una cultura di pace, Queriniana, Brescia 1983, pp. 33 – 57; Anselmo Palini, Massimiliano, un obiettore di coscienza nella Roma antica, in Id., Testimoni della coscienza. Da Socrate ai nostri giorni, editrice Ave, Roma seconda ristampa 2009, prefazione di Franco Cardini; R. Cacitti, Il cristianesimo primitivo di fronte al problema della guerra e del servizio militare, in “Vita e Pensiero”, 54/6 (1972), pp. 77 – 89; E. Butturini, La nonviolenza nel cristianesimo primitivo, in “Humanitas”, 2, 1977, pp. 103 – 114; A. Portolano, L’etica della pace nei primi secoli del cristianesimo, Federico&Ardia, Napoli 1974; K. W. Ruyter, Pacifismo e servizio militare nella Chiesa primitiva, in “Humanitas” 2(1983), pp. 173 – 195; A. Harnack, Militia Christi. La religione cristiana e il ceto militare nei primi tre secoli, Il pozzo di Giacobbe 2016.

[1] A Diogneto, 5.

[2] Origene, Contra Celsum, 73.

[3] Origene, Contra Celsum, 73.

[4] De patientia, 10, 7.

[5] Adversus nationes  4, 7.

[6] Lattanzio, Divinae institutiones 5, 17,12 ss.

[7] Cipriano, Ad Donatum, 6.

[8] Remo Cacitti, Il cristianesimo primitivo di fronte al problema della guerra e del servizio militare, in “Vita e Pensiero”, 54(1972), p. 782.

[9] Remo Cacitti, op.cit, p. 782.

[10] Ippolito, Traditio Apostolica, 16.

[11] Ibidem.

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