La qualità a scuola: fidati!
Ramatou, Djelika e Albert: l’esperienza di integrazione nella scuola primaria italiana di tre fratellini della Costa d’Avorio.
Entro in segreteria e li vedo: sono tre bambini seduti e muti, con gli occhi nerissimi, spalancati sulle espressioni della segretaria. Poi il loro sguardo vaga dal viso del padre a quello della donna, a intermittenza, mentre l’armonia della lingua italiana, peraltro a loro sconosciuta (provengono dalla Costa d’Avorio), li prende, forse li avvolge e li culla.
Si accorgono della mia presenza e mi fissano con un’espressione eloquente e universale, che non lascia dubbi: «Ho paura», dicono gli occhi sbarrati della bambina più grande. Alla soglia di una preadolescenza, penso, non è facile passare da un’adunata nel cortile della scuola africana a questa nuova realtà italiana. La capisco.
Ho sempre pensato che le scuole dovrebbero essere piccole, a misura. Accenno a un sorriso verso il gruppetto spaventato. La ragazzina non risponde, come paralizzata. Treccioline finissime e nere incorniciano il visetto della sorellina. Lei risponde al mio sorriso con un guizzo divertito negli occhi d’ebano («Che bello, qui è tutto nuovo, e poi c’è il mio papà… E tu chi sei?»). È solo un fugace consenso, poi ritorna seria.
Prendo atto della documentazione: si chiama Ramatou, mentre il nome della sorella più grande è Djelika. La segretaria fa un cenno d’invito, Djelika sussulta e si avvicina al banco. Poi osservo il terzo ragazzino. I suoi occhi severi non mi abbandonano da quando sono entrata. Me ne sono accorta e gioco paziente con la sua curiosità: «Ciao… Qual è il tuo nome?», gli chiedo.
Tentenna sofferente, so che ha capito, ma è saggiamente prudente. Il padre traduce. «Lui è Albert, mio figlio si chiama Albert». Non dimostra l’età cronologica che leggo sulla documentazione. Anche se mi dispiace che non abbia potuto frequentare regolarmente le scuole in Africa, penso che per lui ora sia meglio così: ha la stessa struttura fisica di molti suoi futuri compagni di classe, ma è più grande. Lo tradisce lo sguardo e tutte le attenzioni che ha per le sorelle.
Dubbi
Il papà sta operando le scelte scolastiche per i figli e ascolto perplessa per le difficoltà che deve affrontare. Sorride, nonostante sia preoccupato, per rassicurare la giovanissima donna che lo accompagna. Con stupore comprendo che è la madre dei ragazzi. Faccio due conti con la loro cultura e mi rassicuro: è proprio la mamma.
Il papà è in Italia da alcuni anni ormai e ostenta sicurezza. Nonostante l’italiano sia ancora impreciso nella sintassi, il fluire linguistico è espressivo e musicale. Avverto in lui prorompente una sensazione di gioia (per la ritrovata unità familiare?), di calma («il sole matura le messi e cresceranno anche i miei figli in questo nuovo Paese?»), di speranza (il futuro sorride a chi ha coraggio, tenacia e una bella risorsa personale!).
L’uomo ha gesti affettuosi per i suoi figli e gli sono grata per questo. Mi ci sento dentro fino al collo in quelle relazioni, mi affascinano. Alcune comunicazioni di rito e poi torno verso casa. E i dubbi mi assalgono. Perché? Sono referente per l’inclusione degli alunni e ne sento tutta la responsabilità. A me l’incarico di avviare le prassi fissate dal protocollo di accoglienza di istituto. Però colgo il fluire allarmato e inusuale di un senso di ansia, mai provato a quel livello fino ad allora: forse perché l’anno è già iniziato e le cose si fanno complesse? No. Non è la prima volta che accade neppure questo!
E allora? Sento su di me gli sguardi degli insegnanti a cui presenterò i tre ragazzi che giungeranno portando, nella mente e nei movimenti, i ritmi e i suoni della loro terra! Interpreto e comprendo le loro preoccupazioni educative e i timori… Abbiamo le risorse? Capiranno i nostri messaggi? Accetteranno le nostre attenzioni? Saremo in grado di comprenderli? La famiglia collaborerà? Impareranno presto la lingua italiana? Accetteranno la mediatrice culturale del loro Paese?
Accoglienza e feedback
«Nuovo inserimento nel nostro modulo già così ricco di complessità? – mi chiede l’insegnante –. Non c’è problema. Sono convinta che sia una ricchezza per noi. Ramatou! Ci farà bene averla qui».
Respiro profondamente. I suoi occhi dicono tutto quello che non abbiamo tempo di comunicarci, mentre annuncia al gruppo: «Domani faremo una festa, perché….». Conosco la sua professionalità. Sarà una festa. Un’insegnante della commissione di valutazione per gli inserimenti, dopo la determinazione della classe, non ha esitato: sulle sei sezioni disponibili, quella che pare più giusta per Djelika è la sua classe, che ospita già quasi la metà di alunni non italofoni, inseritisi tutti negli ultimi due anni. Il clima giusto! Prendo per mano la ragazzina e l’accompagno in aula. Dentro di me sorrido e lei s’impadronisce a sorpresa di questo mio ottimismo.
Albert non fa in tempo a entrare in aula. I ragazzi della classe, preparati dalle insegnanti al suo arrivo, gli vanno incontro festosamente nel grande atrio. Lui si ferma imbarazzato, mi guarda implorando forse qualcosa che volutamente risolvo con un cenno: ce la fai da solo, fidati! Infatti Albert si lascia trascinare dal loro entusiasmo di stile sportivo.
E sarà accoglienza fino a giugno, quando, su richiesta degli insegnanti, scriverà della sua esperienza italiana, con toni commossi e grati, in una lingua di cui ha appena imparato la struttura funzionale. Ma anche questo ragazzino ha saputo imprimere nel clima di classe e nelle relazioni un’impronta indelebile. Difficile scordarsene.