La punk, il barista, l’offeso

La ragazza punk Sono le ventitrè. Un’ora di attesa e la folla inferocita e stanca sale sul bus. L’atmosfera è da incubo. Anche perché quattro giovani sono entrati di corsa, si sono accampati sul pavimento, tra le urla e i commenti della gente, a cui sono del tutto indifferenti. Parlano a voce alta, bevono birra, ridacchiano fragorosamente. Sono ubriachi e fatti. Li guardo dal cantuccio in cui sono riuscito a rifugiarmi, penso con tristezza ad una giovinezza così smarrita. Il chiasso continua: nessuno dei quattro vuole alzarsi per far entrare i nuovi venuti alla fermata e per far uscire chi è arrivato. Facciamo quel che ci pare – urlano – in questa società di m…!. Uno dei quattro, forse il capo, si alza, si mette accanto a me, sogghigna. Preferirei non intervenire, sopportare la fatica del tragitto, anche perché la stanchezza non mi manca. Ma qualcosa mi spinge a non isolarmi. Dico all’orecchio del capo: Perché non convinci i tuoi amici ad alzarsi, non vedi che tutti gli altri stanno male?. Mi aspetto una rispostaccia. Non dice niente. Dopo un po’, dà un’occhiata in giro e il gruppo si alza. La più scatenata, una ragazza punk, si ritrova accanto a me. La gente, impaurita ormai, non fiata. Dico alla ragazza, tranquillamente: Sarai stanca, te e gli amici. Da dove vieni? . E lei racconta: viene da Perugia, la vita le fa schifo, la società manco a dirlo, gira il mondo senza una meta, cerca la felicità. Non ho riposte consolatorie, se non un sorriso, perché sento un affetto per lei: ci sono momenti dove avverti la tenerezza verso qualcuno che vorresti aiutare, ma non sai come, perché lo vedi infelice. Ma hai un attimo, io sto per arrivare a casa, le posso offrire l’ascolto e il sorriso, appunto. Non me ne accorgo, ma l’aria è ridiventata normale. I ragazzi scendono al Colosseo, mi dicono arrivederci, solo a me, chissà perché. Forse avrò fatto qualcosa per loro? Il barista giornalista Roberto è il barista sotto casa mia. Meglio, il cameriere del bar. Ogni tanto, la mattina molto presto, entro per un caffè. Il ragazzo, orecchini vari sul viso, è sempre su di giri, fin dall’alba, si direbbe. Io prendo il mio caffè, pago, saluto e via. Un giorno, entro e mi fa. Buongiorno, professore. Sorrido imbarazzato. Non ci siamo mai parlati. Prendo coraggio e chiedo: Ma sai che sarebbe il mio mestiere, chi te l’ha detto?. Lui spiega che un suo collega una volta mi aveva salutato in questo modo e così lui continuava… Non ricordavo: sarà stata una mattina in cui ero meno chiuso in me stesso e si era iniziato a parlare, chissà… Così, da quella volta, Roberto (ho scoperto il nome) mi saluta, talora non vuole esser pagato, perché comincio a chiedergli come sta, come va, le solite cose: ma con interesse vero. Viene da Testaccio, fa il cameriere per guadagnare qualcosa, studia all’università. Scrive sul giornalino del quartiere. Una mattina, si fa coraggio: Professo’, vuole leggere il mio pezzo? Poi mi dice come vado con l’italiano . Lo prendo, e in metro lo leggo. Il ragazzo ha fantasia, ma l’italiano, beh, meglio sorvolare. Che dirgli? La verità, senza umiliarlo e senza sentirmi chissà chi. Il giorno dopo sono al bar col pezzo. Roberto non si aspettava che davvero lo leggessi, confida. Mi chiede il parere : Ma veramente…, dice, guardandomi negli occhi. Così, gli dico il mio pensiero anzi, se scriverà altri pezzi – il talento ce l’avrebbe – sarei felice di rivederli. Roberto è felice. Offre il caffè e poi fa: Sa, lascio il lavoro, ho trovato posto al Testaccio, ma vorrei lasciarle il cellulare e l’email, così le mando altri pezzi del giornale. Detto, fatto. Roberto è stato di parola, mi ha mandato un altro pezzo. Cose che succedono al bar, di mattina. In fondo, basta un pizzico di interesse a dar colore ad un squarcio di città. Il collega offeso La commissione culturale in cui lavoro da qualche anno è fatta di gente seria, competente, serena (in genere). Fra i colleghi ce n’è uno piuttosto difficile di carattere. Gli ho portato i saluti di un comune conoscente, e questo ha sgelato il rapporto con me, appena arrivato. Ci si saluta volentieri, ci si scambia commenti. Sempre da parte mia con attenzione, dato il temperamento un po’ particolare. Mi interessa infatti lavorare in armonia con tutti, il più possibile. Non è facile, perché il collega si è un po’ rotto con gli altri: mi dispiacerebbero ulteriori fratture. Succede che il responsabile della commissione si deve assentare, chiede a me di sostituirlo per una settimana. È un atto di stima, mi fa piacere, ma temo – e glielo dico – che qualcuno dei colleghi ci possa restare male per non essere stato scelto lui. La gelosia, si sa, non è mai fuori dalla porta quando si lavora insieme… Il responsabile mi dice di non preoccuparmi, il problema non esiste, così lo sostituisco: tutto sembra filar bene. Quando ci si ritrova, il collega mi saluta appena con un freddo buongiorno al posto del solito caloroso ciao. Penso sia di cattivo umore e non ci faccio caso. La cosa però continua le settimane seguenti. Ne parlo con alcuni colleghi: È rimasto offeso perché hai accettato quell’incarico – mi dicono – se l’aspettava lui, si sente più preparato di te. Sono addolorato e sgomento. Ricerco l’approccio con lui, per spiegarsi. Invano. È sempre più freddo. Finché un giorno, d’improvviso, sbotta davanti a tutti accusandomi di carrierismo e altre delizie simili. Dentro di me sono furioso. Mai nella vita ho cercato il carrierismo, anzi ho sempre detestato chi viveva per questo! Sarebbe l’occasione di una solenne, pubblica, litigata: vorrei finalmente dirgli cosa penso di lui, spiegargli davanti a tutti che se ho accettato l’incarico è solo per un atto di cortesia. Il vangelo mi soccorre all’ultimo istante, e sto zitto. L’amarezza è grande, i giorni seguenti, e i colleghi mi riaffermano la loro stima. Io tengo il dolore per me, non mi piace spettegolare. Qualche mese dopo, il collega offeso, mi prende da parte e con voce mansueta dice parole di perdono e di scusa. Non ho difficoltà ad accettarle e a ricominciare a salutarlo con affetto. Penso che tutti abbiamo bisogno di saperci perdonare.

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