La protesta studentesca contro Bolsonaro

Decine di migliaia di studenti, ma anche ricercatori e leader della società civile sono scesi in piazza contro i tagli alle università

Mentre la popolarità del presidente brasiliano Jair Bolsonaro continua a scendere, il peggior risultato di un capo di Stato nei primi tre mesi di governo in Brasile, questa settimana sono scesi in piazza decine di migliaia di studenti per protestare contro i tagli alle università. San Paolo, Rio de Janeiro, Brasilia, Belo Horizonte ed altre decine di città sono state teatro di numerosissime manifestazioni contro la riduzione del budget universitario che, in alcuni casi, arriva al 30%. Si riducono le spese di gestione? No, sono in gioco i fondi per la ricerca (3 mila borse di studio), le cattedre di filosofia e sociologia che Bolsonaro e il suo ministro per l’educazione associano a settori di sinistra e qualificano di «meno produttive per la tasca dei contribuenti». Sindacati, settori della società civile, scienziati e ricercatori si sono uniti alle proteste per manifestare il loro dissenso con l’intenzione di tagliare più di 400 milioni di euro. La reazione del presidente non si è fatta attendere ed ha utilizzato vari insulti nei confronti degli studenti. Ma è chiaro che nel suo progetto educativo, si punta a smantellare settori che considera sotto l’influenza della sinistra, il suo nemico numero uno. Segue tale criterio anche la sua ferrea opposizione a difendere i diritti dei popoli indigeni, dato che ha smantellato il sistema istituzionale che li protegge, con maggiori concessioni agli industriali dell’agricoltura intensiva, che sono anche i maggiori responsabili della deforestazione. Ma attaccare questi settori e la sinistra offre reddito politico perché conserva l’appoggio dei suoi elettori.

Ma dove il suo governo continua a fare acqua è in materia economica. Bolsonaro cerca di ottenere qualche risultato, ma l’incertezza attorno alla capacità del suo governo di far fronte all’impegno di raddrizzare l’economia nazionale gioca a suo sfavore e i mercati, sempre attenti ad analizzare bene i segnali, non gli stanno tributando fiducia, tutt’altro. Bolsonaro era intenzionato a ridurre il commercio con la Cina, divenuto in questi anni il principale partner socio commerciale del Brasile, sostituendo gli Usa, per privilegiare il suo asse con la Casa Bianca. Ma non solo Washington ha perso il primato come socio dell’economia brasiliana, e lo scambio commerciale è lievemente in rosso, mentre i conti con Pechino mostrano un attivo di 26 miliardi di euro. I produttori di beni acquistati dai cinesi sono preoccupati per un nuovo rigurgito anticomunista del capo di Stato che possa mettere in dubbio la continuità dei loro affari.

Cerca di gettare acqua sul fuoco il suo vice presidente, che continua ad affermare che la Cina non è una minaccia per il Brasile. Non solo, ma ammontano a 65 miliardi di dollari gli investimenti del gigante asiatico in loco, particolarmente in progetti di infrastruttura ed energia. Dunque attaccare i cinesi non produce redditi politici, anzi. Non per niente, tra sei mesi Bolsonaro visiterà la capitale cinese e Xi Jinping verrà a Brasilia per il summit di novembre del gruppo di Paesi emergenti conosciuto come Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).

Un bagno di realtà per il suo governo che è ora alle prese con una realtà sociale, politica ed economica complessa. Dove non è facile risolvere tali questioni a colpi di Twitter o di Whatsapp.

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