La protesta oscurata dalla guerriglia

Le loro proposte non trovano interlocutori nei presidi e nel ministro. Sperano che la piazza rompa il silenzio su una legge che per gli studenti non riforma, ma taglia
giornata mondiale degli studenti

Perché sono scesi in strada? Perché si sono messi in viaggio fin dalle cinque del mattino per raggiungere Roma? Perché hanno invaso la capitale in più di 80mila? Erano solo la rabbia e la voglia di guerriglia a muoverli? O c’erano ben altre intenzioni tra i manifestanti di martedì.

 

Esecrabili le azioni di violenza perpetrate per le vie del centro, condannabili anche le motivazioni di questa incontrollabile rabbia, ma non dobbiamo dimenticare le ragioni di una protesta che ha riunito migliaia di giovani e meno giovani, che ormai vedono solo nella piazza e nelle manifestazioni le uniche possibilità di farsi ascoltare. Quel pomeriggio sotto la nostra redazione, mentre le fiamme divoravano i cassonetti li abbiamo incontrati. I volti sono tutti di giovanissimi, qualcuno ha la sciarpa fino al naso, potrebbe essere benissimo uno dei tanti teppisti di via del Corso, ma al mio sguardo incuriosito e alla mia domanda diretta si scopre immediatamente e confessa di essere di Caserta e di avere tanto freddo.

 

Andrea con i suoi colleghi studia da mesi la riforma Gelmini. In varie piazze di Napoli hanno inscenato proteste artistiche, ma sono stati caricati dalla polizia. Sono andati dai presidi e dai direttori di dipartimento, ma si sono visti accogliere da braccia alzate, impotenti. I tagli all’università per loro equivalgono a laboratori chiusi e a ricercatori “bravi” che non faranno più lezione.

 

Antonio ha appena apostrofato malamente un passante e una signora che gli consigliano di tornare a casa e buttare il suo cartello di protesta. Lui fa ingegneria a Tor Vergata. Anche dalle sue labbra esce una sola parola: tagli. Tagli senza riforma, tagli sul suo futuro. E poi tagli agli stipendi: nel dirlo non pensa solo ai prof, ma forse a qualcuno della famiglia.

 

Marika sembra una ragazzina. E’ arrivata da Napoli all’insaputa del papà, un netturbino. «Tanti mi dicono che come regalo di laurea mi daranno un biglietto di sola andata per il nord o per l’estero. A chi vuoi che interessi un architetto in tempi di crisi». Questa è la sua confidenza. «Perché me ne devo andare per forza? Questa è la sua domanda. Mio padre non conosce nessuno nei palazzi e fa tanti sacrifici. Io vorrei dimostrargli che lo studio paga con un buon lavoro, non voglio arrendermi ed è per questo che sono qui».  

 

Il papà di Marco, rappresentante commerciale, è ben consapevole di quello che sta facendo il figlio. «Approva la mia protesta perché vede che voglio capire, mi interesso e non per questo studio meno. Non ho voluto aderire ad una sigla politica quando abbiamo fatto i gruppi di studio: il problema università è di tutti» , mi spiega appassionandosi. «Purtroppo non abbiamo interlocutori. I presidi e i rettori sono impotenti, il ministro è sordo ed è per questo che abbiamo scelto la piazza».

 

Erano abbastanza vicini al gruppo che ha attaccato i blindati della polizia e che ha dato fuoco alla macchina. «Non sapevamo che fare, come fermarli. Stavano rovinando la nostra manifestazione, ma erano troppo rabbiosi». Sono concitati nel racconto della guerriglia e lo sono altrettanto nello spiegare che andranno avanti, ma pacificamente, con altri cortei, ideando installazioni, ricreando un coordinamento pacifico su facebook. Impossibile raccogliere i nomi di tutti, ma le loro richieste non sono anonime, sono precise e alla ricerca di spazi di dialogo e di incontro.

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