La privatizzazione delle coscienze
La “cultura del privato” enfatizzata dalla grande stagione delle privatizzazioni, alla fine dello scorso millennio, ha prodotto in questi anni diversi effetti. Le logiche privatistiche hanno impattato infatti su molti ambiti, dai processi democratici alla coscienza collettiva.
Per chiarire il concetto di coscienza collettiva dobbiamo tornare a Durkheim, uno dei padri fondatori della sociologia, che definisce la coscienza collettiva come un insieme condiviso di norme, valori e rappresentazioni della realtà. E come tale, essa si distingue dalla coscienza individuale. Parlare di coscienza collettiva significa occuparsi sostanziamene della mentalità condivisa da un gruppo di persone, come quel gruppo pensa e giudica. Significa allora parlare di identità, appartenenza, e come influiscono sui nostri comportamenti.
La domanda che ci si può porre è: se la coscienza collettiva è ciò che ci tiene insieme, cosa accade quando una forte “cultura del privato” la investe? Lo stiamo osservando nella pandemia come nelle grandi questioni sociali ed ambientali. C’è una grande difficoltà a convergere su una rappresentazione condivisa della realtà e sui valori, sui criteri di valutazione come sulle azioni necessarie per affrontare le sfide comuni.
Da un punto di vista economico, i comportamenti condivisi da un gruppo sociale diventano un “segnale” per i membri di quel gruppo e per gli altri: lo sono il titolo di studio, che segnala una competenza (o dovrebbe farlo!), l’auto acquistata (che segnala uno status). Ed il segnale forte che le persone hanno ricevuto negli ultimi decenni è che conta il privato, quindi lo stesso sguardo si è ristretto: non mi accorgo dell’inquinamento fintanto che non ne sperimento gli effetti, sposto lo sguardo se incontro un barbone per strada, decido di vaccinarmi in base alle mie idee e preferenze personali. Privatizzando la mia coscienza riduco anche il senso della mia responsabilità verso gli altri e verso l’ambiente naturale.
Eppure accanto alla “cultura del privato” in questi anni si è sviluppata anche una “cultura della cura”, una forma di anticorpo che ha cominciato a bilanciare gli effetti negativi del sovradosaggio privatistico.
Una forte richiesta di cambio di mentalità l’abbiamo constatata nelle proteste ambientali dei giovani. Una voce credibile e autorevole come quella di papa Francesco da tempo ci sprona ad uscire dal vicolo cieco in cui ci siamo cacciati, e lo fa proponendo di formare coscienze capaci di guardare alla realtà che ci circonda, uno sguardo attivo che incoraggia le buone pratiche, stimola la creatività, cerca nuove strade per facilitare iniziative personali e collettive (Laudato si’ n. 177).
Ecco che singole persone, gruppi, mondo della formazione, media e social possono lavorare per rigenerare e attivare una coscienza collettiva, consapevole e aperta a tutte quelle connessioni -“tutto è connesso ci ricorda sempre papa Francesco”- che ci rendono capaci di condivisione e di affrontamento delle sfide comuni.
È una nuova semina a cui tanti stanno lavorando, spesso lontano dai riflettori e da quella narrazione mediatica che talvolta trasforma una parte in tutto, o dichiara “mainstream” – pensiero dominante – quello che forse non è nemmeno condiviso dalla maggioranza silenziosa, ma è più visibile e apparentemente più efficace.
Questi percorsi, che oggi appaiono ancora minoritari, perché mettono l’accento su “comune” o “cura”, mandano segnali e risvegliano le coscienze personali attivando future coscienze collettive, e chiedono di essere narrati, conosciuti, condivisi. “Generazione bellezza”, una trasmissione televisiva che Rai 3 trasmette in orario preserale sta raccontando molti di questi percorsi, storie di intraprendenza e innovazione partecipata, esperienze di connessioni tra persone, ambiente e cultura che moltiplicano le risorse e fanno fiorire le comunità.