La priorità (rimossa) nella lotta alla povertà

È la vera urgenza che tocca milioni di cittadini, ma non entra seriamente nel dibattito pubblico italiano ed europeo. Capire per agire. Ne parliamo con Gennaro Iorio, professore associato di Sociologia all’università di Salerno

Nonostante la crescita inquietante degli indici di povertà in Italia, la grande questione sociale appare rimossa dal confronto politico. Come rileva l’ultimo rapporto di Save the children, un quarto dei minori è ormai a rischio di grave privazione e, secondo la Fondazione banco farmaceutico sono ormai 5 milioni gli italiani che hanno smesso di curarsi per carenza di denaro.

Non si tratta di decidere di pochi spiccioli. Anche Romano Prodi è recentemente intervenuto sul tema, con un editoriale pubblicato su Il Messaggero, per ribadire che senza contrasto alla povertà non esiste possibilità di ripresa: «L’economia può crescere solo se arrivano i soldi nelle tasche di chi vorrebbe consumare ma non ne ha i mezzi». Per l’ex presidente della Commissione europea, prendendo ad esempio quanto avviene negli Usa, occorrono almeno 10 miliardi di euro, è assolutamente necessario dirottare subito almeno una decina di miliardi di euro «per alleviare la povertà assoluta e sollevare i redditi più bassi».

Abbiamo chiesto a Gennaro Iorio, editorialista di Città Nuova e professore associato di Sociologia all’università di Salerno, autore di numerose pubblicazioni sul tema, un’analisi della situazione. Il suo libro, appena edito da Franco Angeli, ha un titolo che ci introduce nel cuore del problema: “Interpretazioni di povertà. Come uscire dalla deprivazione”.

La questione della lotta alla povertà stenta ad entrare seriamente nell’agenda politica, ma le poche volte che si affaccia del dibattito pubblico suscita forti divisioni. Perché? Quali punti nodali si vanno a toccare?

«È il nocciolo della questione. Penso che i poveri non entrino nel dibattito pubblico (fa eccezione il presidente americano Lyndon Johnson negli anni Sessanta con la War on Poverty) perché simbolicamente identifichiamo i poveri mediante una negatività. Ai poveri manca sempre qualcosa: denaro, morale, diritti, biologia. Si pensi che nel Medioevo i teologi dibattevano di povertà e stabilirono che solo i poveri che avevano scelto quella condizione di deprivazione avevano diritto a ricevere l’elemosina. Nel XVI secolo si avviò nelle città europee una riforma delle politiche di lotta alla povertà mediante la reclusione dei poveri nelle carceri e negli ospedali, per correggere i loro comportamenti o per curare la loro “malattia”.

«Con la rivoluzione industriale e la diffusione dell’economia politica si diffuse l’idea che non bisognava intervenire contro la povertà, perché il mercato avrebbe riportato tutto in equilibrio mediante il meccanismo dei prezzi. Per non parlare del darwinismo sociale, che vedeva nella povertà la prova dell’inferiorità delle persone. Con la nascita della democrazia si diffonde l’idea che ai poveri mancano i diritti. Ora solo se usciamo da questa connotazione di negatività possiamo porre le premesse per combattere il fenomeno. I poveri vanno riconosciuti come risorsa e identificati in quanto valore positivo e non mancanza».

Chi può rappresentare davvero i poveri? Quale tipo di legittimità deve avere chi pretende di dare voce ai senza voce?

«I poveri sono scarsamente rappresentati perché non si organizzano. È difficile trovare movimenti dei poveri. Al massimo si trovano movimenti di chi sta in un processo di impoverimento, come oggi sono i ”forconi”. Quindi si hanno scarsi incentivi a fare la lotta alla povertà. La lotta alla povertà la può fare solo chi persegue l’interesse generale o il bene comune. Perché i poveri sono l’indicatore che la democrazia ha scarsa legittimazione, che l’economia produce spreco di risorse perché non utilizza un suo fattore produttivo fondamentale come il lavoro, che la società è sfrangiata nei rapporti sociali. Pertanto l’attenzione ai poveri, prima che essere un imperativo etico, dovrebbe interessare chi ha a cuore la libertà politica, la prosperità economica e la coesione sociale. Ma, appunto, bisognerebbe assumere un punto di vista generale e non di interesse particolare. Infatti, solo i grandi statisti hanno avuto a cuore la sorte dei poveri».

Perché gli indici sulla povertà sono sempre impietosi quando rappresentano la situazione del Mezzogiorno? Quale ostacolo strutturale necessita rimuovere? Come partire dagli errori finora commessi?  

«Nel Mezzogiorno la povertà è più diffusa ma crea meno allarme sociale rispetto alle regioni più ricche d’Italia. Cioè al Sud la povertà fa parte del paesaggio sociale, è una “povertà integrata”, mentre al Nord è una realtà nuova che fa più paura, lì abbiamo una “povertà dirompente”. La povertà di oggi, per il Nord e il Sud, ha la radice nella grande crisi che stiamo attraversando. Ed è una crisi che origina dall’enorme crescita della disuguaglianza sociale che ha prodotto la finanziarizzazione dell’economia».

Ci spieghi nel dettaglio.

«La finanza ha un potere che mette sotto scacco gli Stati nazionali. Pertanto sul piano macrosociale, se vogliamo ridurre la povertà, dobbiamo costruire regole nuove per la finanza nel suo rapporto con l’economia reale. Gli Stati nazionali sono troppo piccoli per affrontare questa forza titanica. L’unica forza capace di regolarli è l’Europa. E dentro l’Europa non c’è solo il Mezzogiorno (ricordiamolo che questa area problematica si è ridotta a Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), ma la West Wales and the Valleys (GB), Brandenburg-Nordost (D), Guyane, Martinique (F), solo per ricordarne qualcuno. Un’Europa che può ascoltare i bisogni e i dolori dei cittadini solo se essa stessa diventa democratica. Ma oggi non lo è ancora. E questo è il nodo di oggi. Quindi la povertà oggi si combatte con politiche di redistribuzione e di ritorno alla centralità dell’economia reale. Sul piano microsociale la prima misura di lotta alla povertà è il lavoro, perché il lavoro è in primo luogo legame sociale, riconoscimento di dignità, unica via per attivare i soggetti e non renderli meri destinatari di misure pensate da altri. In questo sta anche la vera novità dell’Economia di Comunione».

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