La preghiera per la pace
Iniziano le invocazioni. L’ordine degli interventi segue la cronologia in cui le tre fedi abramitiche sono apparse nella storia: prima gli ebrei, poi i cristiani, infine i musulmani. Alla lode di ciascuno a Dio, seguono una richiesta di perdono e una domanda di pace. I rabbini leggono brani dai Salmi 147, 25 e 130, un patrimonio comune con i cristiani.
Frasi conosciute, espressioni familiari, che immediatamente fanno riscoprire radici comuni. Ma anche i testi islamici risultano vicini agli altri per l’intensità della lode a Dio e la richiesta di aiuto. Non è un incontro di preghiera interreligioso, è stato specificato, ma un’ora di invocazione alla pace dei popoli israeliano e palestinese, formati da ebrei, cristiani e musulmani. Gli inserti musicali invitano alla riflessione, consentono di interiorizzare e sedimentare le parole gravide di religiosità appena ascoltate. Si va verso il momento culmine.
«Spero che questo incontro sia un cammino alla ricerca di ciò che unisce, per superare ciò che divide», afferma subito Francesco, ricorrendo poi ai legami di fondo. «La vostra presenza, signori presidenti, è un grande segno di fraternità, che compite quali figli di Abramo, ed espressione concreta di fiducia in Dio, Signore della storia, che oggi ci guarda come fratelli l’uno dell’altro e desidera condurci sulle sue vie». Allo stesso tempo, ricorda il rapporto tra le generazioni. «Il mondo è un’eredità che abbiamo ricevuto dai nostri antenati, ma è anche un prestito dei nostri figli».
Figli che sono «stanchi e sfiniti dai conflitti e desiderosi di raggiungere l’alba della pace», figli che ci chiedono di «abbattere i muri dell’inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l’amore e l’amicizia trionfino». La sorte dei figli è anche un monito. «Troppi sono caduti vittime innocenti della guerra e della violenza, piante strappate nel pieno rigoglio». La parola si fa stringente. «È nostro dovere far sì che il loro sacrificio non sia vano». Ma come? «La loro memoria infonda in noi il coraggio della pace, la forza di perseverare nel dialogo ad ogni costo, la pazienza di tessere giorno per giorno la trama sempre più robusta di una convivenza rispettosa e pacifica».
Ed ecco una frase lapidaria. «Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra». E chiarisce. «Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo». Ma, è anche vero, non c’è alternativa. La memoria collettiva abbonda di prove. «La storia ci insegna che le nostre forze non bastano. Più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla». Proprio così. Eppure «non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli».
Francesco addita come dovere quello di rispondere alla comune «chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”». Un vocabolo spiazzante. Ti immagini che il crescendo delle frasi precedenti culmini nel termine più appropriato: pace. Invece, il papa si spinge più in là. Anzi, più su. «Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre». Un’operazione che sembrerebbe scontata per le tre religioni monoteiste. Ma non è così e gli effetti di una mancata fraternità aprono alla categoria del nemico. Molto praticata.
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Chissà che manifestazioni avrà la pace futura. Quella del momento, scesa su questa cerimonia, ha i riflessi di un’evidente serenità sui volti dei presenti. I tre sono in piedi sulla pedana. Le delegazioni stanno per avvicinarsi e salutare. Sarà un momento lungo e intenso in cui tutti vorranno centellinare il gusto di quegli istanti: la fraternità. Fondamento della pace. E il papa stesso ne dà prova, chiamando accanto a sé Bartolomeo, in modo che quanti passeranno a salutare il vescovo di Roma trovino vicino il patriarca di Costantinopoli. Al termine i quattro si avviano verso la vicina sede dell’Accademia delle Scienze per definire futuri passi. La cerimonia può essere considerata la degna conclusione del viaggio di Francesco in Terra Santa. Ma può trattarsi anche dell’inizio di un nuovo corso del pontificato di Bergoglio.
"Francesco e Gerusalemme, sfida religiosa e politica" di Paolo Lòriga (Città Nuova, 2014)