La Posta di Città nuova
Incontriamoci a “Città nuova”, la nostra città
Luce nella città: “Città nuova” in Mariapoli
Mariapoli, una parola che in tanti nostri lettori ne evoca altre, come condivisione, vita insieme, amicizia, notti in bianco trascorse a parlare, ad ascoltare, scoperta di una dimensione dell’esistenza dove conta l’essere e non l’avere e la fraternità diventa l’obiettivo per cui progettare, per cui rischiare. Insieme.
Sono state numerose in Italia quest’anno, e altre si stanno ancora svolgendo mentre andiamo in stampa, concentrate soprattutto in tre ponti di fine settimana, quello del 25 aprile, del 1° maggio e del 2 giugno.
Grande la varietà dei programmi; gli argomenti trattati, coinvolgenti le esperienze che tratteggiano un profilo di cristiano cui interessa scendere in campo per contribuire a mutare le sorti della propria città, quella dove si tornerà dopo l’esperienza della Mariapoli, quando le sfide quotidiane faranno apparire impossibile la fraternità appena sperimentata.
Per questo era nata Città nuova nel lontano 1956: per tenere collegati quelli “dell’unità”. E per questo anche quest’anno Città nuova è stata presente, non solo negli stand preparati appositamente. Ma nei programmi. Diversi redattori sono stati invitati ad intervenire (a Roma, Loreto, Bellaria, Cuneo, Genova), contribuendo, come è tipico di un media, a tessere la trama, a tenere il filo del discorso.
«Gianluca ha presentato Città nuova – ci raccontano Maria Teresa ed Eugenio da Bergamo – sfogliando il primo numero dell’anno e, leggendo poche righe per pagina, ha saputo mostrare che essa si compone sì, di articoli, ma in questi viene comunicato un unico messaggio di unità, di amore, di vita evangelica. In sala c’era tanta voglia di imparare a leggere tra le righe».
«Sala buia, un solo faretto e voce fuori campo che legge brani di Città nuova – ci partecipa Pietro da Pisa –; le esperienze venivano raccontate così, usando la lettura del giornale come filo conduttore».
«Durante il programma, Città nuova era nelle mani di chi parlava – scrive Maria Giulia da Torino. Per presentare la Mariapoli abbiamo letto le impressioni dei partecipanti a quella del 1959 pubblicate su Città nuova di quell’anno. E quando si è affrontato il tema dell’economia, del lavoro e della disoccupazione, gli interventi erano intercalati con brani di articoli della rivista sull’argomento».
E in Mariapoli si scattano anche foto, quante! Da Brescia arriva quella vincitrice del concorso fotografico dal titolo “Luce nella città” con la richiesta di poterla pubblicare nello spazio di “Incontriamoci a Città nuova”. È di Mattia Brusinelli, 8 anni, di Manerbio. “Uscita dal tunnel” è il suo titolo ed è anche l’augurio che arriva dalle Mariapoli 2009.
Marta Chierico
Post-terremoto, capacità di fare e fare bene
«Sul n. 10 nell’articolo “Ricostruire l’anima dei luoghi”, si fa un confronto tra le varie soluzioni messe in atto per la ricostruzione delle aree italiane colpite dal terremoto negli ultimi quarant’anni. Per quanto riguarda il sisma del 1976 in Friuli, si dice che la ricostruzione è stata affidata ai sindaci, ricostruendo come era e dov’era, “con esiti non sempre positivi sulla comunità”. Avendo vissuto da tecnico della Regione le varie fasi della ricostruzione, desidererei capire cosa si vuole intendere con quest’ultima affermazione; il “modello Friuli” è stato riconosciuto a livello nazionale, e non solo, come esempio di efficienza complessiva (dallo snellimento delle procedure amministrative alla rapidità di esecuzione degli interventi sul territorio) che poi si è tentato di riprodurre in altre situazioni (anche per l’Abruzzo se ne parla), ma con risultati non ugualmente brillanti. Forse qualcosa non avrà funzionato al meglio anche nel post terremoto friulano, ma credo che i risultati positivi siano stati di gran lunga superiori alle eventuali carenze. Riprendendo la frase conclusiva dell’articolo, penso veramente che in Friuli sia stata ampiamente dimostrata, la capacità di «”fare” e di “fare bene”».
Mario Ravalico – Trieste
Essendomi trovato presente, come giornalista, alle fasi immediatamente successive di quasi tutti i principali eventi sismici verificatisi nel nostro Paese, da quello del Belice in poi, posso testimoniare di avere assistito ad un evidente miglioramento dell’efficienza negli interventi di soccorso e in quelli della ricostruzione. In particolare, ciò mi sembrò evidente nella ricostruzione del Friuli.
Anche l’avvio degli interventi nell’aquilano mi è parso abbia tenuto conto delle precedenti esperienze. C’è solo da sperare che l’attuale clima politico arroventato non crei ostacolo al buon proseguimento dei lavori.
Perché non usare meglio le statistiche?
«Le statistiche che l’Istat rende note, relative ai decessi per patologia circoscritti ad un determinato territorio, non sono aggiornate e risultano quindi inesatte. Sorge perciò spontanea una prima osservazione: nell’era dell’informatizzazione degli uffici, quattro o cinque anni di ritardo nella pubblicazione dei dati rappresentano un’anomalia o sono un fatto voluto?
«L’Artum (Associazione italiana registro tumori), che complessivamente copre il 30 per cento della popolazione residente in Italia, è presente nel Lazio solo a Latina e pubblica a sua volta, nell’ultimo lavoro, dati relativi ai tumori registrati in Italia nel periodo 2003-2005; il ministero della Salute dovrebbe anch’esso registrare i decessi avvenuti negli ospedali. A questo punto vien da chiedersi: perché ci sono tanti enti per registrare dati provenienti da altri organismi e poi non c’è nessuno che li aggreghi per territorio? Perché attendere inoltre anni prima di rendere noti dati non completi?
«Riguardo le statistiche Istat inerenti le morti a causa di patologie, come il tumore polmonare, lo stesso ente, in risposta ad una mia richiesta di informazioni, risponde: “Si precisa che tali valori riferiscono ai decessi avvenuti nel comune di …, sia dei residenti che di cittadini residenti in altri comuni”. Roma ha numerosi ospedali e centri oncologici, i decessi di cittadini non residenti a Roma che avvengono negli ospedali romani quindi rientrano nelle statistiche Istat relative alla città.
«Non sussistono dubbi sul dato totale dei decessi che avvengono in Italia, ma a questo punto sorgono spontanee altre osservazioni: perché i dati forniti non estrapolano l’incidenza delle morti relative ai cittadini realmente residenti in un determinato territorio, fornendo quindi informazioni realmente utili riguardo all’eventuale contaminazione ambientale del territorio stesso? Si ritiene forse che sia meglio non parlarne? Tutto ciò a chi giova?
«Al cittadino, che si ammala con una frequenza sempre maggiore, certamente no, al Sistema sanitario nazionale, che appronta interventi e terapie sempre più onerose, nemmeno, e allora? Perché non fornire dati aggiornati e realmente utili per la cittadinanza residente in un determinato territorio?».
Gaetano Minasi
Il suo ragionamento mi pare logico. E dunque la sua richiesta più che plausibile. Non so quanto il suo esaudimento dipenda dall’inerzia cronica che affligge la nostra burocrazia. Si può tuttavia sperare che l’informatizzazione, sempre più largamente presente, affretti i tempi per arrivare ad una maggiore razionalizzazione e raccolta di questi dati.
Strada lunga ma corretta
«A proposito dell’editoriale di Fabio Ciardi sul n. 7 di Città nuova, penso che seminare solidarietà e comunione anche con la nostra presenza sia una preziosa provocazione, perché dilata i confini della nostra rappresentazione della biodiversità e la estende in una dimensione più alta di quella puramente naturale e materiale. È necessario invece guardare più in là, alla biodiversità culturale e spirituale, salvaguardandola col rispetto e l’ascolto, segno di quella “accoglienza” che non si omologa e non omologa gli altri a sé, ma propone la bellezza della diversità vissuta in sintonia, valorizza la positività in tutte le forme culturali incontrate e diventa strumento pedagogico per imparare, gli uni dagli altri, modi diversi per incarnare i valori e quella legge naturale che Dio amore ha posto nel cuore di tutti in tutti i tempi, gli spazi, le culture. È solo da poco tempo che, con l’intercultura e l’interdipendenza, stiamo scoprendo anche noi europei di non poter fare a meno degli altri. L’ideale dell’unità poi ci ha aperto ad una dimensione di vera comunicazione e di ottimizzazione delle specificità tra popoli e culture».
Pino Palocci