La posta del direttore

Dialogare senza preconcetti Nella Posta del direttore del n. 2 del 25 gennaio ho letto con interesse le due lettere a firma rispettivamente di Pietro e Claudio. Ambedue trattano lo stesso argomento; però mentre la prima, pur parlando di dialogo, mette in evidenza il pericolo di una islamizzazione dell’Occidente (il dialogo non mi convince, dice), l’altra dà più ampio spazio ad una intesa fra cristianesimo e Islam. Ho l’impressione che si stia dando troppa voce a questo famoso dialogo che, in definitiva, ci sta portando ad una acquiescenza verso le mire dell’altro, tese ad un espansionismo politico-religioso, ma più religioso che politico, considerato il regime teocratico vigente nel mondo islamico. Certo, mi rendo conto del fatto che ormai i flussi migratori verso l’Europa sono un evento storico inconfutabile; ma non sottovalutiamo, con lungimiranza, il pericolo di una possibile islamizzazione generalizzata, a danno di un cristianesimo che da secoli è la fonte e l’ispirazione di ogni rapporto sociale e di tutta la civiltà occidentale. Ho la sensazione che il cristianesimo si stia un po’ afflosciando su certi concetti di solidarietà, a beneficio dei più furbi e dei più attivi. Non dimentichiamo che anche Gesù un bel momento si arrabbiò quando vide il Tempio trasformato in un bivacco di mercanti. Anche la Consulta islamica presso il ministero dell’Interno spero si limiti ad avere finalità di ordine pubblico, senza concedere qualcosa che vada al di là di una semplice tolleranza. Giuseppe Memoli – Salerno Anche questa lettera che garbatamente dissente da opinioni diverse che abbiamo ospitato su queste pagine, entra a modo suo in dialogo ed offre un utile contributo di riflessione. Da parte mia posso confermare che esiste un islam non radicale col quale il dialogo è possibile; e chi si cimenta in questa impresa non è certo da paragonare ai mercanti del tempio di Gerusalemme. In questa direzione, anche se non possiamo avere ancora riscontri concreti, si dovrebbe muovere la neocostituita Consulta islamica. Ciò premesso, si deve riconoscere che il dialogo non è affatto semplice e va portato avanti senza preconcetti, conoscendo – cosa che spesso non è – i fondamenti delle due religioni. Resta sempre praticabile, comunque e al di sopra di tutto, il dialogo della carità che si esplica con le opere. Anche a costo di subire qualche torto. Don Santoro e tanti prima di lui hanno dato la vita per questo. Ma anche semplici gesti, come testimonia la lettera che segue, possono sdrammatizzare situazioni incandescenti. Stavano bruciando l’ambasciata danese a Beirut Nel caos che ha sconvolto i quartieri cristiani di Beirut, dovuto alle caricature pubblicate in Danimarca, ci tengo a raccontare a Città nuova un piccolo episodio che ha coinvolto un mio conoscente, un cristiano impegnato nel dialogo coi musulmani, e che abita proprio nella via del consolato danese. C’erano tanti musulmani in collera, che correvano e distruggevano tutto quello che incontravano, vetri, macchine parcheggiate ecc. Per proteggere la sua auto e la sua casa, quest’uomo è sceso all’ingresso del parking. È arrivato un gruppo di manifestanti; lui si è rivolto loro con calma, e li ha invitati a salire in casa sua per prendere una bibita. Così, con sua moglie, li ha accolti con un po’ d’acqua e dei succhi di frutta, e ha parlato con loro. Uscendo, questi uomini hanno detto alla moglie: Non aver paura, siete in sicurezza. Ed effettivamente l’edificio non ha subìto alcun danno. Mi viene da commentare che, come sempre, l’amore è proprio la soluzione che ci vuole. Marianne – Libano Quante Shoah dimenticate! Assolutamente d’accordo, senza alcuna riserva, sulla Giornata della Memoria del 27 gennaio. Forse la giornata è nata per ricordare tutte le stragi, unitamente alla Shoah, emblema, simbolo e monito del male assoluto dell’uomo contro l’uomo. Forse però non si dà sufficiente spazio anche alle altre orribili e spesso non ricordate e analizzate stragi, avvenute con cinico e bestiale calcolo nel tempo, tipo (solo a titolo esemplificativo): indigeni delle Americhe, armeni, curdi, zingari, schiavi dell’Africa antica e moderna, istriani, prigionieri dei Gulag, popolazioni del Ruanda, martiri continui per la fede, centinaia di migliaia di condannati sommariamente a morte. Consapevole del rischio, ma col desiderio di non essere frainteso e di non voler adombrare la Shoah, lancio comunque la domanda/ proposta. Paolo De Maina – Grottaferrata Se dovessimo completare la lista cui lei accenna solo a titolo esemplificativo, come giustamente dice, non basterebbero le pagine della rivista. Negli anniversari di questi tristissimi avvenimenti lo si fa, e anche noi non abbiamo dimenticato ora gli armeni, ora i ruandesi, ora gli istriani, non senza suscitare anche qualche risentita critica. Tuttavia non è certo la vendetta, bensì la pietà, il perdono e la condivisione che queste rievocazioni suscitano, mentre rendono omaggio alla verità. Quella verità che sola ci farà liberi: libere dal risentimento le vittime; liberi dall’ignoranza i posteri; e liberati attraverso il pentimento quanti fra i carnefici pentiti troveranno la forza di chiedere perdono. Spesso, come è avvenuto per il popolo tedesco, lo hanno fatto i figli in nome dei padri. Anche il dramma che una parte dell’umanità sta vivendo in Palestina e in tutto il Medio Oriente, non ha altro sbocco verso una soluzione che questo. Per scongiurare una nuova Shoah. Uno strumento per il lavoro pastorale Dal rinnovamento di Città nuova anch’io ho ricevuto una nuova spinta ad apprezzarla e diffonderla; e ho raccolto espressioni di apprezzamento di tanti sacerdoti. Anzitutto ciò vuol dire che Città nuova è letta ed è diventata un punto di riferimento. Quando, ad un recente convegno a Castelgandolfo, al quale hanno partecipato circa settecento sacerdoti, è stato chiesto quanti di loro usavano Città nuova per il loro lavoro pastorale, ho visto una selva di mani alzate. Praticamente quasi tutti si servono di Città nuova. M.B. – Roma La favola e le vignette piacciono Vorrei comunicarvi l’esperienza che mia madre ha fatto a proposito del giornale con il nipotino Sergio. Vivono lontani, e quando lui fa visita alla nonna, vuole sempre leggere con lei le storie della rubrica Fantasilandia e le vignette di Gibì e Doppiaw. Sono state così importanti per lui nel tempo, ora ha otto anni, che le ha fatte tutte ritagliare e raccogliere in un album… Così, m’è nata l’idea che vi lancio: avete mai pensato di pubblicarle insieme in un libro?. Sandra Zoppolato DIFESA DELLA VITA E CULTURA DELL’AMORE È nota la difesa che la chiesa fa della vita, e che la porta a scontrarsi con la cultura laicista. Ovviamente non si tratta di mettere in discussione il valore della vita. Vorrei, però, fare una considerazione sul perché nei comportamenti concreti degli individui la vita trova scarsa difesa. È molto interessante ciò che il giornale Avvenire ha scritto ultimamente sulle cause della denatalità. Ora, la denatalità è certamente conseguenza di mancanza della cultura della vita. Ma perché non è praticata la natalità? La domanda rimanda al problema del costume e, in particolare, al problema femminile. Noi vediamo come la donna oggi privilegi l’impegno fuori casa e impieghi molto della propria capacità di amore, di dedizione, in un lavoro esterno alla famiglia, piuttosto che in famiglia. I fattori che determinano questa situazione sono diversi, e sono analizzati dagli studiosi; ma vorrei indicarne uno che mi sembra abbia molta attinenza alle difficoltà circa l’accoglienza della vita, e cioè che alla radice di questa carenza ci sia una carenza di cultura dell’amore: mi riferisco in particolare all’amore tra l’uomo e la donna, e quindi all’amore all’interno della coppia, all’interno della famiglia. Ora, è intuibile che solo un amore forte tra l’uomo e la donna, chiamati a dare la vita, può motivare e sostenere la scelta della vita. Se è così, occorre un’educazione all’amore. Bisogna educare gli uomini e le donne di oggi all’amore. Soprattutto i ragazzi e i giovani. È il caso di dire che oggi occorre una ri-scoperta dell’amore; dell’amore vero, dell’amore autentico, e non di una concezione dell’amore, che lo riduce alla sfera sessuale intesa in senso riduttivo. Per questa via non si arriva all’amore vero, ed è difficile innestare in essa la cultura della vita. Mi sembra, quindi, che anche di fronte alla chiesa si pone questa esigenza, questa sfida: educare all’amore per una cultura dell’amore che sorregga la difesa della vita. Gianni Caso – Roma

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons