La posta del direttore
Marxismo e decolonizzazione “Lamento la scarsa intelligenza di alcuni commenti giornalistici sulla fine del leader angolano Jonas Savimbi. La sua morte è stata infatti considerata quasi come una liberazione per il popolo angolano, sconvolto da una lunga guerra civile. “Savimbi era uno degli ultimi leader anticomunisti che si ostinava a combattere il suo nemico in uno scenario da guerra fredda. Gli Stati Uniti, però, caduta l’Unione Sovietica, hanno lasciato soli questi guerrieri a battersi contro regimi sanguinari e ben armati. “Se dunque è vero che strani traffici circondavano le parti in lotta nei territori del terzo mondo, è altrettanto doveroso mostrare rispetto e riconoscenza a quanti, come Savimbi, non abbandonarono la lotta per la libertà della propria nazione. Provo vergogna per i tanti intellettuali che applaudivano le gesta dei guerriglieri marxisti, i quali giunti al potere hanno soltanto affamato e oppresso i popoli. L’Angola non fa eccezione”. Alessandro La storia dell’Africa durante e soprattutto dopo il colonialismo è piena di personaggi come Savimbi che, ben al di là delle ideologie, nel migliore dei casi, hanno cercato di dare uno spazio politico e territoriale alla propria etnia. Si sa, infatti, che i confini degli stati usciti dalla decolonizzazione ricalcavano quelli precedenti, non tenendo quasi mai conto delle suddivisioni etniche, quanto piuttosto degli interessi economici dei vecchi padroni. Ma nel gioco si inserirono anche i nuovi interessi di chi voleva soppiantarli. Diventò allora facile, per chi voleva modificare a proprio vantaggio questi equilibri, puntare su personaggi carismatici e di talento, come Savimbi, per sollevare intere regioni e condurre guerre lunghe e feroci con milioni di morti. Stragi che non cessarono neppure con l’esaurirsi della guerra fredda, ma che sono continuate fino ad oggi, come i fatti del Congo, del Ruanda, del Burundi e la stessa fine di Savimbi dimostrano. Clausura e vocazioni “Sono un giovane della provincia di Udine, che ha iniziato da poco a conoscere l’amore di Dio per l’uomo. “Vivo in una regione che, più di altre in Italia, sta sperimentando la secolarizzazione e scristianizzazione della società: chiese vuote, preti anziani, seminario vuoto ma Dio non abbandona la sua chiesa e in tutte queste difficoltà sta nascendo un nuovo fiore: un monastero delle clarisse (lo potrei definire il “polmone” della chiesa). “Il monastero è nato una quindicina di anni fa; inizialmente erano presenti solamente 5 suore, ma ora ne conta già 39: un miracolo. Sono ancora molte le richieste, ma per ragioni di spazio non è più possibile accoglierle. “La superiora ha così deciso di costruire un nuovo monastero che possa accogliere le novizie, ma le spese sono molte e le finanze ridotte. “È possibile pubblicare un appello nella vostra rivista? “. Manuel – Udine Non c’è che da rallegrarsi per un fiorire di vocazioni tale da consigliare la costruzione di un nuovo monastero. Siamo lieti di ospitare nella rubrica “Guardiamoci attor- no” di pag. 33 le indicazioni per chi voglia inviare offerte. Forse qualcuno si chiederà perché non si pensi a dirottare l'”esubero” di postulanti verso monasteri meno affollati. La risposta è che, anche se la spiritualità francescana delle clarisse è universale, tuttavia ogni monastero ha un suo cammino spirituale. Occorre anche rispettare le scelte personali di una vocazione. E a proposito di suore di clausura, abbiamo ricevuto un’altra segnalazione: le carmelitane di Camerino “offrono alle giovani desiderose di fare un’esperienza di preghiera e di discernimento vocazionale, la possibilità di trascorrere un periodo di tempo negli ambienti del loro monastero”. (Monastero Santa Maria del Carmine, via A. Medici, 31 – tel. 07372616 – 62032 Camerino Mc). Orgoglio gelese “Grazie anzitutto per l’articolo su Gela. Vi sembrerà poco, ma di Gela e dei gelesi non importa a nessuno. Il problema inquinamento va affrontato con molta serietà. Bisogna fare uno studio che tenga conto della salute, dell’ambiente e delle risorse che il territorio ha per potere creare lavoro. Uno studio serio dimostrerebbe che è possibile fare convivere industria ed ambiente. Viene da sorridere quando si dice: meglio malati ma con il lavoro. Nessuno sceglie di ammalarsi per il lavoro e lasciare la famiglia sul lastrico. “Il petrolio ha portato l’industria a Gela ed ha cambiato profondamente la vocazione a questo territorio, che era la pesca e l’agricoltura. Oggi infatti ci sono commercianti tecnici, saldatori, operai specializzati, scuole specifiche per il settore industria chimica. Gela è oggi una città dove la cultura non manca. Quale cultura? È la cultura del ragioniere, del tecnico, del medico, ecc. Manca completamente la cultura dello sviluppo, del management, dell’imprenditoria intraprendente, coraggiosa, costruttiva. “Tutto questo perché la classe dirigente politica ha voluto tenere Gela ed i gelesi nel sottosviluppo. Tutto deve rimanere sotto il controllo di pochi. Non è un caso che chiunque tenti di emergere, viene scoraggiato, perché ha bisogno sempre di quell’aiuto che non arriva mai. “Alla luce di ciò, che è una parte di quanto accade a Gela, oltre alla malavita organizzata che semina terrore, viene da scoraggiarsi, perché in questa città non c’è nemmeno l’ombra di un futuro. “Noi però andremo avanti per riconquistare la nostra terra e la nostra dignità”. Raffaele – Gela Tutto vero, ma la peggior cosa sarebbe piangersi addosso. Mi sembra che già nell’articolo su Gela sia contenuta la speranza di una ripresa. Moltissimo dipenderà dalla volontà di non rassegnarsi, che è stata vincente già in questi giorni. Il seme della violenza “Se l’attentato mortale all’economista e consulente ministeriale Biagi era prevedibile, molti ne sono convinti, e nulla si è fatto, significa che a taluni servono dei martiri. Assurdo pensare alla maggioranza o alla opposizione e, più ancora, ai sindacati. Non so chi siano gli artefici di un così efferato delitto, ma certo non ne capisco la logica, né le aspettative. Colpire chi dialoga è assurdo: Biagi, D’Antona, Giugni, Moro “Men che meno capisco la scelta della violenza come alternativa al dialogo possibile che non insegni nulla l’attuale quanto tragico conflitto palestinese/ israeliano? “Una ideologia si deve difendere sì con la forza, ma con quella delle idee; un atto terroristico è la denuncia della debolezza delle proprie idee”. Dino Arpino Da sempre Città nuova ribadisce questo concetto. Anche nell’editoriale di questo numero che invito a leggere, lo sottolinea Nedo Pozzi con qualche considerazione in più. Forse non è corretto mettere sullo stesso piano l’eversione brigatista, il conflitto israelo/palestinese e l’esasperazione della lotta politica. Non lo facciamo. Ma riconosciamo che alla base di ogni violenza c’è un sovvertimento di valori, un seme di odio che genera altro odio e produce morte. Redenzione e perdono “Potreste dirmi in quale testo della Sacra Scrittura viene detta la frase “Gesù venne nella pienezza dei tempi”? Quale significato dare alla “pienezza dei tempi”? Se l’umanità è stata creata migliaia di anni prima e la disobbedienza dei primi genitori ha trasmesso le conseguenze del loro male lasciando un’eredità di millenni nel peccato non perdonato, quale è il significato di questa lunga attesa per una redenzione e perdono? “. Isabella Tebaldini – Brescia Risponde don Mario Bodega. Lo dice san Paolo nella lettera ai Galati al cap. 4 vv. 4-5: “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli “. Quest’espressione “pienezza del tempo”, come si può capire dal contesto, indica la venuta dei tempi messianici, che danno appunto compimento, attuazione alle promesse di Dio manifestate nell’Antico Testamento. Ci sono poi altri passi nel Nuovo Testamento che aiutano a capire meglio e ad approfondire il significato dell’espressione “pienezza del tempo”. Ad esempio nel vangelo di Marco (1,15) troviamo all’inizio della vita pubblica di Gesù che fa il grande annuncio: “Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Così in Efesini 1,10 e Colossesi 1,19. Come spiegare la lunga attesa della redenzione e del perdono, prima di Gesù? Dio misericordioso si è manifestato anche nell’Antico Testamento: da Adamo ed Eva, ad Abramo, Mosè, i patriarchi e i profeti. Basterebbe pensare a tutta la storia del popolo ebraico fatta anche di infedeltà, esperienze dolorose, pentimento e perdono e rinnovo dell’Alleanza. In Gesù, nella sua incarnazione, morte e resurrezione, troviamo la manifestazione più grande della misericordia di Dio e l’attuarsi della redenzione. La redenzione di Gesù, poi, non è limitata al tempo e allo spazio della sua vita terrena (ai suoi 33 anni passati in Palestina), ma abbraccia ogni uomo, donna e tutto il creato al di là del tempo e dello spazio, e redenti non sono soltanto quelli nati dopo di lui, ma anche tutti quanti nel tempo sono nati prima di lui.