La porta si chiude
Chiudo a chiave la porta di casa e senza accorgermene do tutte le mandate e penso che forse non l’avevo mai fatto prima.
Sfilo le chiavi e mi rendo conto di quanto sia assurdo questo gesto anche perché Carlo è rimasto dentro e allora le rimetto nella toppa e tolgo le mandate e poi le lascio lì, non mi servono più…
Le valigie sono pesanti e avrei dovuto organizzarmi meglio, da sola è troppo faticoso, sono sempre troppo impulsiva e potevo almeno chiedere a mia sorella di accompagnarmi a riprendere le mie cose, ma non sapevo a chi affidare la bambina.
Ho lasciato dentro mezza vita prendendo solo il necessario e il resto chi se ne frega: è già troppo doloroso così… Magari torno fra qualche mese, quando mi sentirò pronta a strappare il resto dell’anima.
Scendo le scale perché temo l’ascensore e ogni rampa la devo fare due volte perché le valigie sono tre e tutte insieme non si possono portare, anche se andarmene da qua è una cosa certo più pazza di ammazzarsi con le valigie per le scale… Lasciare la casa in cui sei entrata con l’abito da principessa, sudando, piangendo, nella desolazione.
Dopo due piani sono stremata e mi appoggio alla porta dell’ascensore e dopo un po’ che rimango così decido di aprirlo… La mia vita sta cambiando e allora accelero come per rompermi la testa e spingo dentro le valigie e dopo qualche secondo in bilico fra dentro e fuori entro anch’io, chiudo le porte e premo T, terra, scendo.
[…]
Mi sono ammazzata per queste scale con la spesa, col passeggino di mia figlia e con tutto quello che ci ho portato in tutti questi anni. Ho preso l’ascensore perché oggi i pesi sono più grandi della paura. La mia casa è diventata una prigione peggiore di un ascensore in cui rimani intrappolata, un luogo stretto e angusto in cui stavo lentamente soffocando.
Il tassista mi vede dalla strada tirare fuori le valigie e mi viene in aiuto prendendo il carico più pesante mentre mi chiede se sono io il suo cliente chiamandomi per cognome: «Allegri?». Faccio cenno di sì con la testa e mi accorgo ora di aver detto al centralino il mio nome di famiglia che non uso più da quando mi sono sposata.
L’ho fatto senza intenzione e mentre salgo sul taxi guardo un’ultima volta il palazzo dove sono stata negli ultimi sedici anni, dal giorno del matrimonio… Penso a questo mentre chiudo la portiera e non vedo l’ora che quest’uomo gentile che è venuto a prendermi innesti una marcia e parta e mi porti via presto.
Da Dieci giorni, storia di un amore, di Fernando Muraca (Città Nuova, 2015)