La politica italiana ad un bivio, intervista a Paolo Pombeni

Quali scelte attendono la politica italiana in vista delle elezioni nazionali del 2023? Un commento sullo strumento referendario e i risultati delle comunali del 12 giugno. Il nodo della legge elettorale e lo scenario completamente nuovo aperto dalla guerra in Ucraina
Politica italiana Foto Cecilia Fabiano - LaPresse

La politica italiana è in fermento dopo la tornata elettorale del 12 giugno che ha individuato già al primo turno i sindaci di alcune città importanti, come Genova e Palermo, e confermata la crisi dello strumento referendario con il mancato e prevedibile mancato raggiungimento del quorum sui quesiti relativi alla giustizia.

Ne parliamo in questa intervista con Paolo Pombeni, tra i maggiori politologi italiani, che ha recentemente pubblicato con Il Mulino un libro, “L’apertura. L’Italia e il centrosinistra (1953-1963)”, che permette di ricostruire la svolta dei governi di centro sinistra inaugurata dal quarto esecutivo di Amintore Fanfani nel 1962, seguito dal governo di Aldo Moro nel 1963, incentrato su importanti riforme concrete come la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’unificazione della scuola media.

Per leggere il nostro tempo occorre, infatti, una visione storica di lungo periodo e uno sguardo alla politica internazionale così importante in questo tempo della guerra in Ucraina che ha visto l’attuale presidente del Consiglio italiano in visita a Kiev, assieme a Macron e Scholtz, in vista del consiglio europeo del 23 e 24 giugno che si annuncia di importanza strategica assieme alla riunione dei Paesi Nato prevista a Madrid dal 28 al 30 giugno.

Il fallimento prevedibile del referendum sulla giustizia fa intravedere una crisi di questo strumento di democrazia?
La crisi dello strumento referendario è visibile da tempo, basti pensare che pochissime consultazioni hanno raggiunto il quorum prescritto. La ragione è nella scelta suicida di non limitarsi a proporre solo uno o due quesiti, ma di inondare gli elettori con un lungo elenco di questioni, la maggior parte delle quali non sono risolvibili con un sì o con un no. Ciò rende evidente complessivamente che con il referendum si cerca più il colpo di spettacolo per non dire il colpo di mano che di rilevare l’orientamento dell’opinione pubblica su un determinante quesito di fondo. Del resto si sarà visto che i promotori dei referendum si sono lamentati della esclusione dei quesiti sulla cannabis e sul fine vita perché contavano su quelli per portare la gente alle urne, ma questo significa che si punta sulla demagogia, sui voti di pancia, e non sulla formazione di una opinione pubblica responsabile su temi delicatissimi.

Servono nuove regole adatte al momento attuale?
Indubbiamente se vogliamo salvare uno strumento delicato come il referendum, che ben inquadrato ha una sua validità, bisogna ripensare le regole. La prima riguarda il quorum. Trovo osceno affermare che chi non si è recato alle urne lo ha fatto per una scelta consapevole a favore del no, perché tutti sappiamo che è così solo in misura molto ridotta. E comunque anche in questo caso è disdicevole incitare all’astensionismo. Non si può neppure abolire il quorum, perché l’effetto sarebbe di cadere nelle mani di minoranze organizzate che ci infliggerebbero continue prove referendarie. La soluzione ragionevole è innalzare il numero di firme necessarie che però devono essere date con un minimo di “fatica” (niente firme col “clic” informatico), abolire l’insensatezza di conferire a cinque consigli regionali il potere di indizione (o se proprio si vuole salvarla si deve introdurre in questo caso il vincolo del 80% dei consensi dei membri del consiglio, per garantirsi dalle strumentalizzazioni di parte) e infine fissare il quorum per la validità alla media della partecipazione attiva alle ultime tre tornate elettorali di cui almeno una nazionale. Aggiungerei la limitazione dei quesiti da sottoporre al voto ad un massimo di due o tre per tornata referendaria, con garanzie di una loro adeguata illustrazione al pubblico.

Anche se contrassegnati da dinamiche locali, i risultati delle comunali fanno intravedere il possibile prevalere di un centrodestra unito nelle politiche del 2023? Con quali effetti in termini di rappresentanza in un parlamento ridotto nel numero di deputati e senatori?
Sarei molto cauto nel prevedere come andranno le politiche del 2023. La situazione generale è talmente mobile (non sappiamo come andrà la pandemia, quali saranno le evoluzioni del quadro internazionale, che situazione economica avremo) che si possono avere molti ondeggiamenti nelle sensibilità dell’elettorato. Del resto è una mobilità che stiamo vedendo da un decennio, né mi pare ci siano partiti veramente capaci di “guidare” la pubblica opinione. Il centrodestra al momento gode di un vantaggio contingente, perché bene o male riesce a tenere insieme la sua coalizione, mentre il centrosinistra è in difficoltà proprio su questo punto.

La riduzione del numero dei parlamentari realizzata nel modo più irresponsabile possibile porrà molti problemi. Innanzitutto le circoscrizioni uninominali saranno vastissime e questo significa molto spazio per la demagogia, perché più della fiducia nei candidati prevarrà il gioco delle “figurine” sostenute dalla propaganda di schieramento. In secondo luogo è possibile che nella parte col voto di lista ai partiti abbia spazio la dinamica delle “tribù” che ormai abbondano in tutti. Di conseguenza non sarà sufficiente contare quanti parlamentari ha il partito X o il partito Y, perché poi, come abbiamo già visto, una volta eletti molti si muoveranno abbastanza liberamente e formare maggioranze non sarà facile, ma soprattutto mantenerle per un periodo che consenta di gestire con continuità una linea politica.

Sembra ormai impossibile il cambiamento della legge elettorale nazionale nonostante gli impegni già assunti. L’ennesima eventuale approvazione all’ultimo momento di una legge su questa materia non costituirebbe, a suo parere, un grave vulnus alla democrazia destinato a far aumentare l’astensionismo?
Una legge elettorale escogitata all’ultimo momento e soprattutto nelle attuali condizioni difficilmente potrebbe darci un sistema ragionevole perché tutti cercherebbero di infilarci qualche “trucchetto” per avere dei vantaggi. D’altro canto l’attuale legge elettorale che obbliga a coalizioni là dove non esistono coesioni che vadano oltre le somme numeriche (e teoriche) dei consensi nei sondaggi non darà buoni risultati. Purtroppo è una trappola infernale da cui si cercherà di uscire con appelli diffusi e generalizzati alla demagogia. Per questo probabilmente non avremo un astensionismo più alto di quello attuale, certo preoccupante, ma che sta diventando normale in tutti i sistemi politici.

Che strade può avere di fronte il Pd davanti al dilemma tra la mancanza di peso elettorale del cosiddetto “campo largo” con i 5 Stelle e l’incompatibilità con l’area liberal riformista di Azione, radicali e soprattutto Italia Viva di Renzi che, in queste elezioni amministrative, ha stretto alleanze anche con il centro destra in alcuni comuni?
L’unica strada seria che il Pd può avere di fronte è costruire una piattaforma elettorale credibile e cogente sulla quale chiedere la convergenza esplicita di tutte le forze che si sentono alternative alle destre. Deve però farlo non con l’idea di costruirla in modo da tenere dentro tutti e dunque giocando sulle parole in modo da accontentarli, ma seriamente ponendo delle questioni che discriminino. Solo questo può da un lato spaccare i Cinque Stelle o costringerli tutti alla ragione e dall’altro mettere alla prova Calenda, Renzi e gli altri del gruppo liberal-riformista per vedere se puntano ad avere davvero “riforme” o se non riescono ad uscire dai personalismi. È un’impresa ciclopica perché il Pd è a sua volta un aggregato di componenti con dentro molti più difetti di quelle che stanno al suo esterno. Una seria piattaforma aprirà un confronto interno non facile nel Pd, ma senza questo passaggio non si farà nessun “campo” che sia in grado di imporsi all’opinione pubblica.

Il tema della guerra non sembra aver influito sulle elezioni comunali, o altrimenti può rappresentare la crescita di un consenso verso i partiti più direttamente decisi sulla linea atlantista di Draghi come il Pd e Fratelli d’Italia. Cosa si può dire del fatto che l’Italia parteciperà all’incontro Nato di fine giugno a Madrid dove verrà definito il nuovo concetto strategico di difesa senza un reale dibattito nel merito a livello parlamentare e della società?
La guerra imperialistica scatenata dalla Russia è una “disgrazia” che ci è capitata addosso e che non possiamo illuderci di evitare. L’opinione pubblica italiana in gran parte si illude che sia possibile evitare questo tornante storico, perché siamo stati abituati a pensare che gli eventi negativi facciano parte di “errori” che si potrebbero evitare. Questo è vero solo in parte, la natura umana è quello che è, la storia pesa su di noi. Di fronte alla guerra sono possibili due atteggiamenti: il primo è giustamente condannare questo modo di fare politica internazionale, sapendo però che non siamo in grado di cancellarlo; il secondo è considerare che dentro questo “peccato” noi dobbiamo vivere ed agire nel modo più responsabile possibile, cioè accettando che un Paese di un certo rilievo come l’Italia non può vivere e agire collocandosi fuori dal sistema internazionale così come si è configurato. Purtroppo non abbiamo una buona tradizione di dibattiti e competenze sulla politica estera, che affrontiamo troppo spesso con lenti utopistiche, ideologiche quando non demagogiche, sicché un dibattito parlamentare su temi così complicati, specialmente con la classe politica che abbiamo, ci porterebbe più disastri che aiuti ad affrontare nel modo migliore questo complicato tornante storico. Che, mi si consenta di dirlo, abbiamo appena cominciato ad affrontare, perché il futuro ci porrà delle sfide molto importanti e difficili.

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