La politica della nonviolenza attiva
L’ottantenne papa Bergoglio condanna in ogni occasione il mercato delle armi e propone la nonviolenza come stile di una politica di pace. Lo ha fatto nel messaggio di inizio 2017 davanti a un mondo che continua ad aumentare le spese militari. La sola Italia ha incrementato del 59% nel 2016 l’esportazione di prodotti bellici verso il Medio Oriente e l’Africa e si è impegnata come Paese Nato, prima con Obama e ora con Trump, ad accrescere le spese nel settore difesa che già ammontano a 64 milioni di euro al giorno.
La nonviolenza, nel discorso comune, rimanda alla passività verso il male, una vera e propria collusione con l’oppressore. Francesco, invece, parla di “politica”, cioè di vera e propria “lotta” da intraprendere per non precipitare verso un conflitto globale autodistruttivo dell’intero pianeta.
Senza troppi bizantinismi, c’è qualcuno in Italia che affronta l’opzione della guerra come una necessità. Il fondatore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, crede che sia possibile intervenire in Medio Oriente per sradicare il terrorismo islamista ponendosi, nel dicembre 2015, la questione: «Ma allora tu vuoi la guerra? Tu parli di un conflitto di proporzioni globali, costoso in vite umane e in risorse, capace di segnare un’intera epoca, forse un secolo di storia dell’umanità. Non ti rendi conto della gravità e follia di quanto stai dicendo? Dovrei rispondere semplicemente: sì. Ma preferisco pensare che una forza anche militare soverchiante, e una decisione politica del mondo occidentale, sgravato del suo grottesco senso di colpa, possano realizzare parzialmente o totalmente il compito senza necessariamente affacciarsi su uno scenario che fa rabbrividire. Se vuoi la pace, prepara la guerra».
Per restare nel campo occidentale la sicurezza di Ferrara deve fare i conti con altre domande. Ad esempio, la decisione da parte di George W. Bush e alleati di scatenare la guerra in Iraq nel 2003 era forse giustificata? Meritava l’obbedienza? E così la decisione di seguire le mire francesi nel 2011 per fare a pezzi la Libia e scatenare l’inferno in quell’area non costituiva motivo per non collaborare? Michele Zanzucchi su Città Nuova aveva elencato 10 motivi contrari a quella guerra che l’industria bellica ha usato anche per fare propaganda ai suoi prodotti. Il caos siriano poi, senza voler entrare nel merito, scatena ricostruzioni assai diverse sulle cause di un conflitto che lascia una popolazione martoriata in balia dei disegni tattici delle potenze internazionali.
Chi decide la guerra?
Come ha spiegato dalla sua cattedra di strategia militare alla Luiss di Confindustria il generale Carlo Jean, i criteri adottati per definire una “guerra giusta” «sono impraticabili e inattuali nei conflitti armati reali». Nelle guerre moderne, cioè, «la popolazione civile non è solo vittima ma attore e oggetto della strategia. E allora come distinguere quanto è moralmente accettabile attaccare da quello che non è?». Secondo il generale Fabio Mini, già capo della missione internazionale in Kosovo, gli attacchi sui civili e gli ospedali sono «un danno preciso e calcolato». In un dibattito promosso da Medici senza frontiere, Mini ha affermato che «oggi un conflitto non ha fine e non ha più nemmeno più i fini statuali, umani e umanitari. Deve andare avanti senza una fine perché ci sono tanti interessi di carattere privatistico e non nazionale». Come ha scritto l’economista Johh K. Galbraith, consigliere di tre presidenti Usa, le grandi corporation degli armamenti esercitano una pericolosa pressione sulla politica estera e militare «al punto di ammantare di legittimità e perfino di eroismo la devastazione e la morte».
È da questo sguardo realistico che si può comprendere la domanda che pone Francesco nel gennaio 2017: «La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”?».
Ugo De Siervo, già presidente della Corte costituzionale (vedi box), afferma che «il messaggio di Francesco è un invito ad usare la nonviolenza per eliminare, prevenire o sostituire ciò che avviene attraverso le guerre, ma non vieta in certi contesti l’uso delle armi». Così come è avvenuto con la Resistenza e per ogni ribellione giustificata da motivi di intollerabile oppressione. Anche Mao Valpiana, presidente del Movimento nonviolento fondato da Aldo Capitini, ci dice che «la nonviolenza deve fare i conti con il possibile realizzabile». Valpiana riconosce che «esistono situazioni estreme in cui si è costretti drammaticamente a scegliere tra restare inerti o agire anche in maniera violenta senza tuttavia avere la certezza di aver risolto il problema alla radice». Bisogna cioè proporre sempre altre soluzioni possibili senza arrendersi alla banalità del male. L’istituzione dei corpi civili di pace sono un esempio di intervento di prevenzione non violenta dei conflitti.
Guerra, affari e coscienza
Sta di fatto che il ripudio della guerra fissato in Costituzione ha subìto, come dice De Siervo, una lenta erosione mentre la «rassegnazione alla guerra» contraddistingue «l’attuale spirito del tempo», secondo Lucio Caracciolo, direttore del mensile di geopolitica Limes, che riconosce negli atti e nelle parole di Francesco un argine verso il fatale determinismo bellico. Caracciolo invita a leggere le guerre attuali come effetto dello sfaldamento degli imperi provocato dalla Grande guerra di cento anni fa, quando si alzò il grido di Benedetto XV per porre fine all’inutile strage. Recentemente il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha ricordato che si trattò di un invito ai governanti dei Paesi coinvolti in quella lotta fratricida, non ai soldati e alle loro famiglie che restavano sottomessi all’obbedienza verso l’autorità legittima. Come ha scritto nel 1952 don Primo Mazzolari, giovane fervente interventista nel 1915, «se invece di dirci che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste, i nostri teologi ci avessero insegnato che non si deve ammazzare per nessuna ragione, che la strage è inutile sempre, e ci avessero formati ad una opposizione cristiana chiara, precisa e audace, invece di partire per il fronte saremmo discesi sulle piazze». Mazzolari come don Milani è uno dei maestri indicati da Francesco come anche altri radicali oppositori cattolici alla guerra, Thomas Merton e Dorothy Day.
Ma cosa vuol dire oggi una politica di nonviolenza attiva? Prendiamo il caso concreto dell’invio dal nostro Paese di bombe destinate a una guerra dimenticata come quella nello Yemen, che sta provocando decine di migliaia di vittime civili e milioni di profughi. Sul territorio sardo, dove quelle bombe sono costruite, è nato un percorso di rilievo nazionale per affermare che un’area in crisi di investimenti e politiche industriali non può subire il dilemma tra produzione di morte e mancanza di lavoro. «Per noi – affermano Arnaldo Scarpa e Cinzia Guaita del Movimento dei Focolari ad Iglesias, tra i promotori di questo cammino – tali condizioni, strutturalmente violente, richiedono lo sforzo di una nonviolenza attiva che comincia con il rifiuto di collaborare al male per proporre concretamente un diverso destino del nostro territorio e non solo». Una via difficile che sembra utopica, ma loro hanno ben chiaro Igino Giordani quando affermava: «Non basta il riarmo e neppure il disarmo per rimuovere il pericolo della guerra: occorre ricostruire una coscienza».
Nonviolenza e Costituzione
Intervista a Ugo De Siervo, presidente del consiglio scientifico dell’Istituto di diritto internazionale della pace Giuseppe Toniolo.
Come si lega il richiamo alla nonviolenza alla Costituzione?
Il forte messaggio di Francesco parla di “lotta pacifica”, quindi di politiche praticate con determinatezza e coerenza da parte di movimenti come quelli di Gandhi, di Luther King e tanti altri per affrontare i conflitti senza l’uso della lotta armata. La nostra Costituzione ripudia la guerra, salvo quella difensiva (non si vietano, quindi, l’esercito o le forze armate). Ma occorre riconoscere che è avvenuta una lenta erosione di questo principio costituzionale nei numerosi casi nei quali sono stati richiesti – a volte impropriamente – interventi militari in sede internazionale.
Per esempio?
L’Italia è intervenuta in alcuni casi definiti di mantenimento della pace ma che non erano tali o su istanza di organismi internazionali a ciò non abilitati. Occorre porci in una prospettiva molto diversa da quella esistente: normalmente è necessario un uso estremamente contenuto della forza armata a favore di scelte di prevenzione e risoluzione dei conflitti. Ma certo l’attuale politica estera è assai lontana da questa prospettiva: gli stessi politici che si rifanno all’ispirazione cristiana devono mutare in profondo e rapidamente le premesse di tale politica, che non a caso continua a portarci in situazioni gravi e pericolose. Dall’ex Yugoslavia nel 1999 all’Afghanistan nel 2001, dall’Iraq nel 2003 alla Libia nel 2011, fino al conflitto siriano attuale, la legittimazione dell’intervento militare appare molto dubbia. Governi e Parlamenti di solito si manifestano obbedienti verso ogni richiesta di intervento militare che proviene dall’estero nel quadro delle nostre alleanze internazionali. Questa è però una politica estera tragica e inconcludente.
Quindi?
Non tutto si può giustificare con il ricorso a letture improprie dell’articolo 11. Pertanto diviene naturale la più convinta opposizione, seppur con mezzi non violenti, magari anche in sede giudiziaria oltre che politica, verso violazioni della legalità quando queste dimostrabili.
Di guerre, menzogne e altri interessi
Intervista a don Renato Sacco, parroco piemontese e storico esponente di Pax Christi con notevole conoscenza del quadro mediorientale.
Secondo alcune interpretazioni, l’articolo 11 della Costituzione permette l’intervento armato. Cosa ne pensa?
In tutti i casi in cui è stato evocato, dalla Jugoslavia alla Libia passando per Afghanistan e Iraq, non ci sono mai state le condizioni del secondo comma di questo articolo che consente «in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Viceversa, quando esistono certe condizioni, come nella Repubblica democratica del Congo o in Sarahawi, Sud Sudan, l’Italia resta immobile o sta dalla parte sbagliata.
Non ritiene inevitabile l’intervento armato per reagire alla follia dell’Isis e in casi simili?
Un intervento deve essere portato avanti da una autorità internazionale, legittima, come avviene quando si chiama la polizia nelle nostre città e non si affida il ristabilimento dell’ordine chiamando un clan contro l’altro. Il problema è che l’Onu viene sistematicamente screditata a vantaggio della Nato, che è l’espressione di alcuni Stati contro altri e non rappresenta per niente la comunità internazionale. La Nato andrebbe perciò smantellata a favore di un’organizzazione come le Nazioni unite, che è invece continuamente danneggiata, oltre che “bloccata”, dalle potenze che hanno il diritto di veto e che sono anche le maggior esportatrici di armi.
Ma in certi casi bisogna agire…
Non voglio sminuire la follia dell’Isis, credo sia legittimo assimilarlo al nazismo, penso allo strazio subito dalle donne yazide che ho avuto modo di incontrare nel 2009 in Iraq, ma il primo passo da compiere sarebbe stato quello di non vendergli le armi, le automobili e smettere di comprare il petrolio. Non è certo in questo modo che si combatte il terrorismo islamista, se non a parole ed evocando una guerra che copre altri interessi.
Ma non sono accuse generiche?
Pax Christi ha denunciato i traffici della vendita di armi Italiane all’Arabia Saudita e i legami, ad esempio, anche con il Qatar che tuttavia è intoccabile per i troppi interessi economici che smuove anche nel nostro Paese. Pensando anche allo sfruttamento dei lavoratori per i Mondiali di calcio del 2022, mi chiedo: perché non boicottare i Mondiali di calcio in Qatar come strumento di pressione politica possibile e fattibile da parte della società civile?