La Pira e il Sermig
Correva l’anno 1967. Il Sermig di Torino, fondato, il 24 maggio 1964, da Ernesto Olivero, dalla sua fidanzata e da alcuni amici muoveva i suoi primi passi. Le idee del sindaco di Firenze Giorgio La Pira affascinarono Olivero che lo andò a trovare. Venerdì 6 giugno a Firenzealle ore 18 presso la chiesa di San Salvatore al Monte alle Croci e poi presso San Miniato al Monte, un incontro ricorderà l’avventura del Sermig sulle orme di Giorgio La Pira, alla presenza di Olivero e del cardinale Giuseppe Betori. La manifestazione è promossa dall'Arcidiocesi di Firenze, la Fondazione La Pira, l’Opera per la gioventù Giorgio La Pira e il Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira. Nostra intervista a Ernesto Olivero.
ll 1967 era un anno difficile, per la guerra dei sei giorni tra Israele e Palestina il mondo sembrava sull’orlo di un nuovo conflitto. Perché si recò a Firenze?
«In quel periodo per la prima volta sentii parlare di Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, la sola voce che si alzava forte e chiara a favore del dialogo e della pace. Le sue idee mi affascinarono: si rifacevano all’annuncio di pace del profeta Isaia, la trasformazione delle armi in strumenti di lavoro. Non so perché, ma pensai che prima o poi il Signore mi avrebbe usato per qualcosa del genere. Sedici anni dopo sarebbe iniziata la trasformazione dell’ex arsenale militare di Torino in Arsenale della Pace, oggi sede del Sermig.
Andai a trovare La Pira a Firenze. La sua persona, la sua convinzione che le tre grandi religioni figlie di Abramo potessero incontrarsi pacificamente mi colpirono molto. Fu per me un grande esempio e mi incoraggiò a proseguire sulla via della pace».
Qual è stata la scintilla ispiratrice del Sermig? Come tutto è cominciato?
«Non riesco mai a rispondere con precisione a questa domanda perché non c’è mai stata una scintilla ma piuttosto una normalità: l’impegno che mettevo fin da bambino nell’ascoltare i consigli di persone buone che mi suggerivano di fare questo o quello e alle quali io istintivamente ubbidivo. Primo fra tutti padre Liberato, parroco francescano, che da quando avevo poco più di 8 anni iniziò a farmi fare catechismo a bambini più o meno della mia età o appena più piccoli di me. Sono cresciuto grazie a persone che avevano fiducia di me e che mi davano piccoli o grandi incarichi, proporzionatamente alla mia età. E per me è diventato quasi naturale aiutare gli altri, pensare che i problemi, anche grandi, si potessero risolvere. Credo che la vera “scintilla” sia stata in fondo l’incontro con Dio che ho avuto fin da bambino: mi sembrava naturale pensare che Dio mi amasse e che mi volesse “usare” per qualcosa che poteva far piacere a Lui».
Cos’è e cosa significa Sermig?
«Sermig – “Servizio Missionario Giovani” – è un nome apparentemente banale ma credo che con i miei amici l’abbiamo scelto pilotati da Dio, perché rappresenta veramente quello che noi siamo: un servizio, che è missionario perché opera a livello mondiale, ed ha uno spirito perennemente giovane perché non perde mai il desiderio di migliorare un po’ il mondo. Dagli anni Ottanta il Sermig è anche “Fraternità della Speranza”, una fraternità all’interno della quale molti tra noi scelgono di dare la vita totalmente a Dio, da sposati o da consacrati».
Qual è il vostro carisma?
«Il nostro carisma ce l’ha indicato la gente: fin dagli anni Settanta, anni di piombo per Torino e per l’Italia, molti dicevano che noi davamo speranza, come la luce che annulla il buio. Il 24 gennaio 1979 Giovanni Paolo II conclusione dell’udienza in cui aveva ricevuto tutto il Sermig, ci invitò a “tirar fuori la speranza assopita nel cuore degli uomini”. Un mandato e un carisma del quale ci diede conferma molti anni più tardi, il 22 dicembre del 2000 nel corso del Giubileo della Pace del quale ci aveva affidato l’organizzazione in Aula Paolo VI. Al termine dell’udienza si avvicinò al microfono e a braccio ci rivolse queste parole: “Viviamo tra tante abbreviazioni, tante sigle. Alcune ci portano paura, ma ci sono anche quelle che ci portano speranza. Ecco, Sermig, oggi viviamo sotto questa abbreviazione: Sermig. E ci porta speranza!».
Cosa intendete per metodo della restituzione?
«All’idea di restituzione siamo arrivati cercando di vivere il “Padre nostro”: insegnandocelo Gesù ha voluto dirci che abbiamo un Dio che è Padre e che siamo fratelli fra di noi. E in una famiglia, piccola o grande che sia, è giusto che nessuno muoia di fame, è giusto che tutti vadano a scuola, è giusto che tutti siano curati. Quando ho preso coscienza di questo significato, mi sono detto: io voglio essere degno di poter chiamare Dio “Padre”. Per esserne degno devo essere figlio e devo mettermi a servizio di tutti quei figli che non hanno forze, che non hanno capacità. A noi è andata bene, perché siamo nati in Italia in una famiglia che si è presa cura di noi, ma se fossimo nati in un Paese o in una situazione differente forse saremmo già morti di fame o saremmo diventati bambini soldato. Presa coscienza di tutto questo, mi sono detto: dobbiamo imparare a “restituire” ciò che abbiamo ricevuto a chi ha ricevuto meno. La restituzione è nata così, e si è fatta cammino. Abbiamo iniziato destinando dei soldi del nostro bilancio familiare per dar da mangiare agli affamati. Subito dopo la restituzione ha toccato il nostro tempo, le nostre capacità: abbiamo 24 ore, cosa facciamo per gli altri? Abbiamo cominciato a mettere a servizio due ore a settimana, che un po’ per volta sono aumentate… Poi è venuta la restituzione dell’intelligenza, del sapere, delle tecnologie messi a disposizione degli altri, grazie a grandi maestri che ci hanno allargato la mente. Uno fra tanti, Giorgio Ceragioli: sosteneva che per aiutare realmente le popolazioni dei Paesi africani era necessario condividere i computer di ultima generazione e non macchine obsolete, altrimenti ci sarebbe sempre stato un divario tra noi e loro. La restituzione perciò valorizza ogni nostra capacità e risorsa materiale e spirituale, per umile che sia, trasformandola in ricchezza per tutti. Fino a vivere 24 ore su 24 con impegno e responsabilità, in famiglia, sul lavoro e ovunque noi siamo, dando il meglio di noi a servizio del bene comune e dei più poveri».
Gli incontri con i Papi: quali momenti ricorda?
«Tre momenti in particolare. Con Paolo VI: quando mi recai da lui per esprimere alcune riflessioni critiche sulla situazione della Chiesa, mi disse che avevo ragione, mi chiese di vivere io quello che desideravo trovare nella Chiesa e mi diede la sua benedizione. Con Giovanni Paolo II c’è stata una lunghissima amicizia, fatta di 77 incontri nei quali ho sempre avuto un unico desiderio: proteggerlo, amarlo, dirgli con la mia presenza: “Io ci sono, ti voglio bene e prego per te”. Francesco: un dono di Dio. Subito dopo la sua elezione ho sentito che lo Spirito santo si era fatto un regalo e ci aveva fatto un regalo. Il 5 ottobre scorso, quando abbiamo potuto sostare parecchio tempo insieme, mi hanno colpito la sua umiltà e quel “Pregate per me, pregate per me”. Da allora, la nostra preghiera per lui è stata e sarà sempre accanita».
Quali sono oggi le vostre periferie?
«Noi siamo nella periferia, viviamo con ex prostitute, con bambini di strada e bambini che hanno subito violenze, con uomini che non sanno dove andare a dormire, con donne vittime di ricatti infami. Ogni notte oltre 1500 di queste persone dormono nelle nostre case, ogni giorno mangiano insieme a noi. Stiamo crescendo con loro. Questo significa condividere le grosse sofferenze di queste persone ma anche ricordare tantissimi volti che si sono salvati e stando con noi hanno ritrovato il senso della vita».