La piccola Lola

Bertrand Tavernier, affronta un problema attuale spinoso, l’adozione internazionale. L’idea gli è venuta da un romanzo scritto dalla figlia Tiffany, cui ha affidato la sceneggiatura. Ella ha svolto un’inchiesta nel mondo dell’adozione, esaminando pazientemente la situazione in patria, dove l’informazione non è sufficiente, oltre che nella Cambogia. Un paese, quest’ultimo, dove vanno molti in cerca di bambini da adottare, ma ancora esangue in seguito al genocidio commesso dagli khmer rossi, con campi minati ancora attivi ed istituzioni statali deboli, in parte corrotte. Per la maggior parte degli adottatori esso appare una prigione a causa delle attese estenuanti, inevitabili a meno di non spianarsi la strada a colpi di dollari, come fanno americani e canadesi. Il film diventa coinvolgente, nonostante i ripetitivi passaggi dalla gioia degli aspiranti genitori, quando hanno trovato un bambino alla delusione per l’insorgere di qualche immancabile imprevisto. L’autore dà prova del suo talento nel descrivere l’atmosfera regnante in uno di quegli alberghi, ove sono ospitate le coppie, mostrando solo fugacemente le sfumature delle loro emozioni, le speranze, le invidie, le isterie, senza cadere nel patetico. È soprattutto dei due protagonisti che si coglie il dramma per la sterilità. Poi la crisi che si accompagna allo scoraggiamento per l’accumularsi delle difficoltà e, infine, l’esultanza sincera per l’ottenimento di una bambina. È interessante la descrizione del rapporto tra occidentali ed orientali. Questi hanno modi miti, ma sono spinti dalla povertà ad arrangiarsi come possono. Quelli sono descritti con comprensione per il loro desiderio di avere un figlio, ma mostrati, anche, come possibili vittime di visioni egocentriche e di capricci da europei viziati. Il merito di Tavernier, che tocca questi punti con equilibrio, è aver saputo ricordare, con completezza, la serietà del problema delle adozioni. Regia di Bertrand Tavernier; con Jacques Gamblin, Isabelle Carré, Bruno

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