La pianura e il coronavirus: come alzare la testa dal pelo dell’acqua
Siamo abituati a pensare con i numeri. Durante la pandemia abbiamo seguito con apprensione la salita della curva, a volte faticando a vederci le persone, con le loro sofferenze, i lutti, le speranze. Dai balconi abbiamo fatto festa quando l’abbiamo vista raggiungere il picco e cominciare finalmente a scendere.
Poi l’abbiamo un po’ lasciata perdere, mentre la discesa si assestava e la curva diventava una retta orizzontale. E ora tutto questo sembra lontanissimo: la gente riprende la sua vita, ansiosa di tornare alla normalità.
Ma cosa ci attende veramente?
Allo zero quella curva non c’è arrivata mai. Il numero di nuovi casi ondeggia fra i 100 e 200 al giorno e il saldo degli attuali positivi promette una lunga fase di circolazione virale. Può sembrare che la “coda” sia piccola, ma non lo è: tracciare i contatti asintomatici è difficile, e conosciamo la facilità con la quale si sviluppano nuovi focolai.
Studiandone la catena epidemiologia, vediamo che la contagiosità del virus non è per nulla diminuita, comprendendo anche come sia del tutto illusorio sperare di isolarci dal resto del mondo, nel quale la pandemia deve ancora fare del suo peggio.
Terapie efficaci e vaccini sono capitoli ancora tutti da scrivere: gli sforzi e le speranze per ottenerli sono epocali, ma i risultati non arriveranno prima dei tempi tecnici, che si misurano in anni.
Nelle ultime settimane i malati gravi sono una percentuale minore. È probabile che, dopo le riaperture, il virus abbia ripreso a circolare per lo più fra giovani e giovanissimi, che sviluppano meno sintomi: d’inverno, con l’aumento dell’affollamento degli spazi chiusi, proteggere le persone fragili potrebbe diventare un’impresa disperata.
Di sicuro, di Covid 19 si continua ad ammalarsi e morire; nei Paesi che non possono o non vogliono prendere misure di isolamento efficaci il prezzo è altissimo. Chi si ammala sa che il suo esito dipende moltissimo dall’età, ma si possono sviluppare situazioni molto gravi anche nei pazienti giovani, fra i quali non mancano i morti: questa variabilità individuale assomiglia ad una maledetta roulette russa, ancora senza spiegazioni scientifiche convincenti.
Nelle comunità i costi sociali finanziari della malattia sono altrettanto devastanti di quelli sanitari: lo viviamo sulla nostra pelle, con la drammatica alternativa fra bloccare la vita economica del Paese o rischiare la ripartenza dell’epidemia. Nei Paesi a basso reddito e con poche strutture sanitarie, la scelta è fra la catastrofe sanitaria o quella sociale.
La cifra di questa crisi dunque non è solo sanitaria o epidemiologica
Il mondo scopre la propria fragilità, la sua dipendenza da fattore esterni e ambientali, che si pensavano irrilevanti perché messi del tutto sotto controllo dalla tecnologia e dalla scienza. La comparsa del coronavirus è solo l’ultimo di una serie di esempi contrari: oltre alle epidemie virali si diffondono nell’ambiente germi resistenti agli antibiotici, che fanno il giro del mondo in pochi mesi e rendono complicato gestire un trapianto di cuore alla Mayo Clinic tanto quanto una polmonite a Calcutta.
Come affrontare dunque questo nostro futuro, senza nascondere la testa sotto la sabbia? Dove cercare modelli nuovi per superare le contraddizioni che il Covid 19 ha messo a nudo?
Attualmente le uniche regole efficaci per gestire la situazione sono il mantenimento delle precauzioni che riducono il contagio: il lavaggio continuo delle mani, la distanza di cortesia o la protezione delle vie aeree, l’igiene ambientale e dei luoghi di lavoro, compresa l’attenzione a non esporsi agli altri se abbiamo sintomi infettivi o respiratori. Regole che non sono nate per il Covid 19, ma fanno parte di una cultura di rispetto, cura dell’altro e protezione dei più fragili. La loro mancata applicazione comportava già la perdita di migliaia e migliaia di vite all’anno, per la diffusione ad esempio di infezioni respiratorie negli anziani o di germi resistenti agli antibiotici.
Spesso le misure di contenimento delle malattie infettive sono vissute come una lesione del diritto alla libertà dei singoli, mentre le opportunità date dal libero mercato non ammetto le restrizioni alla circolazione di merci e interruzioni delle attività produttive.
Vivere “dopo il picco” costringe quindi a rileggere il nostro mondo, le sue risorse limitate e le sue profonde interconnessioni: ciò che accade agli altri, al clima o ai Paesi meno fortunati ci riguarda dannatamente da vicino. E ci interroga su come conciliare i diritti in conflitto, risolvendo le contraddizioni fra libertà della persona e sicurezza collettiva, produttività e tutela della salute.
Soluzioni e idee nuove ce ne sono tante, basta guardarsi intorno e scoprire le soluzioni, spesso vincenti, di chi vive e lavora nelle nostre città. Sono novità basate su uno stile di vita più attento alle relazioni interpersonali, meno schiavo dell’edonismo, dell’individualismo e del consumismo sfrenato. La creatività al servizio del bene comune è un frutto di quel “bene sommerso”, come l’ha definito di recente il presidente Mattarella, che comprende anche la capacità di porsi limiti, compiere scelte che tutelano la sicurezza degli altri, a costo di “rallentare” il ritmo con il quale si ricercano profitti e soddisfazioni personali.
Converrà imparare a considerare questi atti un investimento, attraverso il quale si ottengono equità e sicurezza a tutti, che sono elementi fondanti del benessere, tanto e forse più della ricchezza materiale. In fondo, siamo aggrappati a questo piccolo pianeta ed è questa l’unica barca che abbiamo: non ci sono scialuppe per mettersi in salvo.