La periferia nei film non è solo Gomorra

Sono numerose e dolorose le pellicole che raccontano storie di disagio e di criminalità, ma anche dei sacrifici e della voglia di rivalsa dei protagonisti.

Non può essere soltanto moda. Il fatto che di recente, tanti buoni film italiani, spesso girati da registi giovani, raccontino storie di periferia (spesso dure, di profondo disagio, se non di criminalità) non può essere ricondotto solo al successo della saga di Gomorra o al suo controcanto romanesco: Suburra.

Beninteso, Gomorra il libro di Roberto Savianonasceva, nel 2006, con intenti di denuncia: era una ricostruzione basata su documenti già esistenti, ma molto efficace da un punto narrativo, che raccontava un sistema criminale radicato nel territorio campano, capace di arrivare ovunque e di avvelenare un numero altissimo di vite. Poi, però, lo straordinario successo editoriale del libro ha portato allo sviluppo prima di un film, quello omonimo di Matteo Garrone (per altro molto bello) e poi, soprattutto, alle tre stagioni della serie, con un aumento lampante della spettacolarizzazione.

Fino al punto in cui i personaggi, ormai popolarissimi tra i giovani, non hanno iniziato a rappresentare che sé stessi, senza essere più simbolo del territorio, senza fornire più immagini indicative di un luogo – l’estrema periferia di Scampìa in cui si muovono -, ma entrando lentamente in una narrazione di genere, quasi un western, in cui tutto il lavoro dello spettatore è limitato a schierarsi con l’uno o con l’altro dei combattenti.

Con Suburra, anche lì prima libro, poi film e infine serie tv – si vira di nuovo verso il genere puro, anche se si parte dalla cronaca, anche lì in un percorso di allontanamento che accelera con l’arrivo della serie. Esistono però film sui luoghi più difficili della città, che non sembrano voler cavalcare le mode, quanto piuttosto esprimere un disagio sociale autentico, una disparità in fatto di opportunità che in questi anni di insufficienza democratica – se non di una vera e propria aridità democratica – non si è assottigliato, anzi.

I protagonisti di questi film, infatti, seppure alle prese con guai, errori, responsabilità e debolezze evidenti, mantengono un fondo di pulizia sul quale un altro sistema, con una più sostanziale attenzione ai fragili, sarebbe potuto entrare e lavorare per nutrire in modo sano, o poi per modificare, le loro vite.

Non essere cattivo, recita il titolo di un film che potrebbe aprire questa lista: un film intenso e doloroso di Claudio Caligari, del 2015, che parla di due ragazzi di Ostia abituati a vivere oltre il confine dell’illegalità, eppure capaci di vivere appieno i sentimenti di amicizia e di lealtà, di essere vitali, affamati di rivalsa, vivi nonostante la sofferenza. Non importa che il film sia ambientato alla metà degli anni novanta: ogni film in costume, ogni film storico, è sempre – anche e soprattutto – un film sul tempo in cui è girato.

Con un salto ai giorni nostri, si può arrivare a chiudere il cerchio – almeno per ora – sul grido di una sofferenza che riguarda tanti incolpevoli, con un altro film italiano ancora nelle sale: La terra dell’abbastanza dei gemelli esordienti Fabio e Damiano D’Innocenzo. Siamo in una periferia romana quasi metafisica, dove due ragazzi che studiano in un istituto alberghiero si ritrovano a imboccare una cattiva strada, un sentiero senza uscita: quello della vita criminale. Sembra essere l’unica possibilità, per loro, di uscire da un contesto che non offre possibilità, ma entrambi, dopo aver assaporato la profonda sofferenza della violenza e della sopraffazione, dopo aver resistito al nuovo inferno grazie alla loro profonda amicizia – diventando capaci di rinunciare a ogni tipo di emozione –, prendono coscienza della loro amara e irreversibile condizione.

Sono storie di umanità schiacciate, di giovani soffocati che vogliono comunque respirare, e che mostrano nonostante tutto risorse profonde. Manuel, personaggio protagonista del film omonimo (sempre d’esordio) di Dario Albertini, uscito nelle sale la primavera scorsa, è uno di loro. È un diciottenne cresciuto in una casa famiglia di periferia romana, è un ragazzo che ha una madre in galera, e che decide di regalarle gli arresti domiciliari accettando di diventare suo tutore.

Manuel è pieno di contraddizioni, fa fatica, porta addosso i segni del contesto, eppure è forte nelle sue evidenti debolezze, è un altro che avrebbe meritato una sorte migliore, ma non si arrende: decide lo stesso di giocarsi ognuna delle poche carte che ha a disposizione, per vivere in modo dignitoso l’età adulta.

In questo solco c’è anche Daphne, la ragazza protagonista del film Fiore di Claudio Giovannesi, del 2016. Anche lei ha un padre in galera ed anche con lei la vita non è stata tenera. Finisce in carcere per furto, ma qui scopre l’amore, e il film di cui è protagonista è un misto di sofferenza e di speranza, è un grido di dolore che a tratti è anche canto. Perché anche Daphne, come tutti i personaggi sopra elencati, ha un cuore parzialmente incontaminato, ancora puro, come recita il titolo di un altro film recente e giovane italiano ambientato nell’estrema periferia di Roma: Cuori puri di Valerio De Paolis. Anche qui l’amore lenisce, la relazione umana diventa oro e forse salva.

Un ultimo titolo va inserito in questa lista: un’opera di Daniele Vicari, uscita nel 2017, che non racconta, come negli altri casi, storie di confine tra legalità e illegalità, che non mostra derive estreme, ma anzi, narra la storia di una donna, Eli, una giovane madre con quattro figli e un marito disoccupato, che ogni mattina alle sei, dalla periferia più estrema di Roma, quando la città è hinterland lontano, si fa due ore di mezzi pubblici per andare a fare la barista (sottopagata e senza diritti) in un bar del Tuscolano.

Se gli altri personaggi sono comunque da salvare, hanno una bellezza impolverata, graffiata, macchiata e la loro storia è simbolica di una sofferenza estrema, ma anche diffusa, il personaggio del film di Vicari, Sole, cuore, amore, è la voce di milioni di supereroi che in un paese fragile e troppo distratto compiono ogni giorno silenziosi, terreni e umanissimi miracoli per rendere dignitose, e non impossibili, le vite dei propri figli. E’ importante che il cinema dia corde vocali e megafono al loro respiro affannato.

 

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