La pelle che abito
È in sala l’ultimo lavoro, un thriller orrorifico, del regista spagnolo Almodòvar
È piaciuto poco, alla critica e non solo, abituata a parlare di capolavoro ad ogni uscita del magico Pedro (ovviamente, esagerando, per amore d’autore). In questo thriller orrorifico, domina un maturo Antonio Banderas, di nuovo dopo molti anni col regista che l’ha lanciato.
Banderas è il dottor Robert, che, perse moglie e figlia, si rifà sulla vita sperimentando sul presunto giovane violentatore della figlia, trasformandolo in una donna con una “pelle nuova”: immagine insieme di moglie, figlia, amante.
Il racconto, che si snoda per capitoli, è gelido; Banderas, in una delle migliori performances della sua carriera, è un viso dalla passionalità ghiacciata. Implacabile nella sua vendetta contro un destino che ha infierito su di lui, il medico si isola da tutti, e persegue la sua lotta verso una forma di vita che gli ridia l’amore.
Ma “la forza del destino”, tipicamente spagnola e almodovariana, avrà la vittoria su di lui, mentre la “nuova creatura che abita una nuova pelle” continua a vivere come in un gioco terribile, doloroso, di sospensione.
Sensualità, vendetta, morte, ossessione per la vita – è giusto “rifarsi” su di essa colpendo i presunti colpevoli? -sono i temi del film. Tuttavia, per quanto tecnicamente perfetto e nonostante la prova di Banderas, risulta alla fine spietatamente algido. Di una freddezza dura. Non coinvolge, finendo per sembrare una esercitazione stilistica perfetta, con una storia in fondo già vista. Come se l’anima di Pedro si sia oggi fatta di pietra.
Dove sta andando il regista dalla fantasia trasgressiva e dall’indagine esasperata del cuore umano? Ma forse quest’ultima opera apre una fase diversa nel suo cammino artistico: quello della passionalità raggelata, che è ancora più forte di quella esplicita. Chissà.