La pazzia è fra noi

In tempi di coronavirus esce America Latina dei Fratelli D’Innocenzo. Un trhiller psicologico su una malattia contemporanea.
Damiano D'Innocenzo, da sinistra, Elio Germano e Fabio D'Innocenzo durante la 78a edizione del Festival del Cinema di Venezia, giovedì 9 settembre 2021 (Foto di Joel C Ryan/Invision/AP)

I fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, quelli di Favolacce, escono al cinema con l’ultimo lavoro, presentato lo scorso settembre a Venezia. Un film desolante e malato perché malata è la terra dove si svolge il fatto, ossia la campagna spoglia intorno a Latina.

Qui in una splendida villa isolata abita il dentista Massimo Sisti (sempre Elio Germano, perfetto nei ruoli estremi) con la moglie affettuosa e le due figlie. È un uomo mite e riservato, stimato, ha pochi amici, ama il suo lavoro. Ma un giorno, scende nel sotterraneo di casa sua e scorge una ragazzina legata ad un palo: è visione o realtà? È lui che ha fatto tutto questo, cioè l’ha rapita – infatti ne parlano le cronache televisive – o è solo frutto della sua immaginazione?

Da questo momento nella testa di Massimo inizia il combattimento fra realtà e immaginazione, capacità di fare del male e volontà di non farlo, amore per le figlie e la moglie e volontà di morte. È un tunnel oscuro di uno smarrimento totale che divide l’uomo in due, gli rompe i l cervello. Finchè, proprio il giorno del suo compleanno, nonostante l’amore di tutta la famiglia verso di lui, qualcosa si rompe in testa ed egli esplode.

Girato in un ambiente spoglio, tra le cupezze nere del trhiller angoscioso e gli sprazzi di luce bellissima specie nei volti delle donne, che rappresentano la pace, il film non arretra nel descrivere in modo stringato la malattia mentale dell’uomo e in lui dell’uomo del nostro tempo. Perché non basta essere persone realizzate ed educate se qualcosa di malato e di non risolto abita dentro di noi. L’inferno della follia può covare in ciascuno e uscire allo scoperto in modo inaspettato.

Il film presenta un uomo che solo in apparenza è sereno e amorevole, ma in realtà è irrisolto: il problema vero è un problema di affetto. Non della famiglia, ma di suo padre, anziano e solo, che ogni volta che lo vede lo umilia, lo rimprovera, gli fa del male. Il padre non lo voleva, non lo ama, e glielo dice, causandogli una sofferenza atroce.

Forse sta qui il nodo centrale del film: è la mancanza di un rapporto con il padre, di amore alla fine, che, subìto e rimosso negli anni, genera poi un malessere esistenziale che rischia di far uscire la pazzia. Perché tutto intorno la società sembra vivere in questo modo anche nei rari personaggi di un film – ispirato più o meno a fatti di cronaca – che si fa parabola di un mondo anaffettivo dove sono i figli, anche se adulti, ad essere i più fragili e le ferite del non amore diventano le più crudeli.

Spoglio, duro e anche pretenzioso e talora pesante, il lavoro apre a una (im)possibile speranza di una società dove la mente può finire nel buio della depressione ma forse può anche uscirne. In fondo, il film è una disperata richiesta di amore.

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