La paura dei migranti

Il 48% dei cittadini europei, secondo una indagine dell’Eurobarometro standard, considera l’immigrazione la preoccupazione principale del Vecchio continente. Eppure può essere una enorme chance

Cavalcare la paura dell’invasione di migranti e lavoratori stranieri è stata uno dei cavalli di battaglia per l’affermazione della Brexit, la vittoria di Trump alle elezioni Usa, il dilagare di populismi in tutta Europa. È una paura da affrontare perché il 48% dei cittadini europei, secondo una indagine dell’Eurobarometro standard della scorsa estate, considera l’immigrazione la preoccupazione principale del Vecchio continente. Seguono il terrorismo, la crisi economica, lo stato delle finanze pubbliche degli Stati membri e l’occupazione. «Commetteremmo un grosso sbaglio ‒ scriveva su Avvenire Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis ‒ se ci facessimo bastare gli argomenti della ragione e non prendessimo sul serio la paura liquidandola come l’espressione di un razzismo ottuso cavalcato da un estremismo politico nazionalista e xenofobo. La paura è il riflesso dell’inconscio collettivo e ci sollecita a rispondere all’interrogativo fondamentale: che società vogliamo essere di qui ai prossimi vent’anni?».

Il quarto rapporto della Carta di Roma documenta 1622 notizie dedicate al tema dell’immigrazione, una crescita di oltre il 10%, rispetto al 2015, 100 volte superiore rispetto al 2013, mentre nei tg assistiamo ad un calo del 26% rispetto al 2015. Si può dire che l’attenzione è costante, ma non si registrano più i picchi di attenzione del 2015 e i toni allarmisti virano verso un fenomeno ormai considerato “quasi” normale. La paura dell’altro come minaccia alla propria identità, al proprio lavoro, alla propria cultura non accenna a declinare e assume, sui social media, «una sguaiata deumanizzazione del linguaggio: compaiono insulti razzisti e sessisti violentissimi». Secondo Alessandra Morelli dell’Unhcr – già rappresentante in Somalia – «bisogna mettere in dialogo la paura di chi fugge con quella di chi accoglie e scardinare il nesso che troppo spesso lega i rifugiati alla tematica della sicurezza. Va promossa una dialettica positiva che punti al capitale umano e alle risorse che ciascuno porta con sé, anche coloro che fuggono da violenze, guerre e oppressione».

Eppure dei 65 milioni di profughi che ci sono nel mondo (se fosse una nazione sarebbe la 21° più popolata del pianeta) il 90% delle persone restano nelle aree limitrofe al loro Paese di origine. Gran parte dei profughi siriani sono in Giordania e Libano. Sono i profughi più poveri, quelli che non si possono permettere di pagare neanche un viaggio in mare per attraversare il Mediterraneo. Si comprende così come le cifre dei migranti in Europa siano residuali rispetto ad un fenomeno molto più complesso. «Una corretta informazione ‒ spiega Alessandra Morelli ‒ diventa così strumento indispensabile per poter contestualizzare la situazione, mettendo in prospettiva cifre e dati che vanno interpretati alla luce di una realtà globale per poter andare oltre una narrativa negativa e di paura che troppo spesso vede associato lo straniero a uno stato di illegalità, vincolandolo a un tema di sicurezza». Siamo abituati ai grandi numeri, a persone senza volto, ma cosa si può fare a livello individuale, orizzontale, quotidiano? «Bisogna guardare ai sogni di futuro che ciascuno porta con sé. Riscoprire e valorizzare i talenti di chi viene nei nostri Paesi e nelle nostre città alla ricerca di quella pace che ha perduto a casa propria».

A livello globale sono state individuate 4 aree di intervento da Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.

  1. la stabilizzazione degli sfollati interni; garantire assistenza umanitaria alle popolazioni sfollate, tramite negoziati politici con le parti in confitto. Se entrambi le parti di un conflitto interno, come ad esempio una guerra civile, si accordano per permettere agli operatori umanitari di portare assistenza agli sfollati che si trovano all’interno del Paese, tale misura può accrescere la fiducia reciproca tra le parti in conflitto con effetti positivi sul processo di pace.
  2. gli aiuti economici ai Paesi di primo asilo;
  3. l’apertura di corridoi umanitari; perché se le frontiere fra gli Stati chiudono, dobbiamo dare delle alternative a chi fugge da guerra e violenza.
  4. rinforzare le procedure di asilo perché ci saranno sempre persone che arrivano nel cosiddetto Nord globale, anche se i 3 punti precedenti fossero attuati e funzionassero.

 

«Questa crisi migratoria non è senza precedenti ma senza precedenti è il numero delle persone che sta coinvolgendo e la sua complessità; per questo oggi è ancora più importante essere ciascuno parte della soluzione e non lasciarsi nessuno alle spalle» conclude Morelli.

 

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