La pattumiera di Pandora

La più grande inchiesta giornalistica mai realizzata sbatte in prima pagina fatti minori di personaggi noti e fatti maggiori di gente sconosciuta. Ma è vero anche il contrario. Come leggerli?
Pandora

I fatti sono presto detti: dall’inizio di ottobre il consorzio di giornalismo investigativo internazionale Icij ha reso pubblici i risultati di un’inchiesta giornalistica senza precedenti, chiamata Pandora Papers, che ha coinvolto 600 professionisti che hanno analizzato quasi 12 milioni di documenti (2,9 terabyte di “ciccia”) in 90 Paesi, documenti che datano dal 1996 al 2020, su beni registrati nei cosiddetti “paradisi fiscali”, altrimenti detti “investimenti offshore”, effettuati cioè in luoghi dove vigono legislazioni particolarmente permissive in materia fiscale. Non è una novità: nel 2016 lo stesso consorzio di giornalisti aveva pubblicato i “Panama Papers”, che si basavano su dati resi disponibili (talvolta questo termine può apparire eufemistico) da alcune società di servizi finanziari di Paesi come Saint Lucia, Isole Vergini britanniche, Panama, ma anche Singapore e Svizzera, che notoriamente impongono tasse irrisorie sulla costituzione di nuove aziende.

I nomi sono ormai noti, almeno quelli più conosciuti mediaticamente, da Tony Blair al re giordano Abdullah II, dal premier miliardario ceco a personaggi dello sport quali gli allenatori Carlo Ancelotti e Roberto Mancini. I dati debbono comunque essere presi con cautela, perché non tutti gli investimenti hanno la stessa dimensione ed evidentemente lo stesso carattere penale. Anzi, la maggior parte rileva piuttosto dell’elusione che dell’evasione fiscale. Altra cosa, invece, è la responsabilità morale di tali investimenti, nei confronti dell’opinione pubblica dei singoli Paesi e della comunità internazionale.

Tre riflessioni mi sembrano opportune. Una prima di carattere politico-morale. Una seconda di carattere economico. Una terza di argomento comunicativo. La nota politica riguarda la gestione dei soldi da parte degli uomini di potere: è evidente come chi arriva ai vertici degli Stati abbia una maggior facilità di accesso a luoghi dove conservare il valore del proprio capitale con maggior facilità. Non tutto è illegittimo, tutt’altro, ma tocca riflettere sull’opportunità di sottrarre risorse alla collettività di un Paese bloccandole in paradisi fiscali d’oltremare mentre il proprio popolo vive di ristrettezze d’ogni genere, o dove le sacche di povertà sono notorie. Il cattolico Blair e il musulmano Abdullah hanno di che riflettere, certamente. La questione, però, non rimane, come taluni hanno sostenuto, nella sfera della morale privata, perché una persona “pubblica” ha dei doveri di trasparenza e di moderazione dovuti alla posizione politica.

La riflessione, invece, economico-morale verte sull’incredibile sopravvivenza di retaggi coloniali nella gestione delle finanze e degli investimenti. Nonostante i controlli crescenti dei Paesi da cui parte l’investimento, è sempre possibile investire offshore senza troppe difficoltà, al limite della legalità. E il fatto che alcuni Paesi possano offrire tali fiscalità ridotte al minimo fa specie in un mondo che per mille altri versi è globalizzato. Anche in questo caso, risulta evidente come servano autorità transnazionali che gestiscano i flussi finanziari, così come ne esistono (o dovrebbero esistere) in campo commerciale, sanitario e anche politico. Ogni dollaro sottratto alla giusta tassazione contribuisce alla persistenza o all’aumento della povertà.

Infine, comunicativamente parlando, va notato come la rivoluzione digitale abbia dato nuovi strumenti al giornalismo per denunciare le malefatte dei potenti di turno, i soprusi dei sovrani, le sviste morali di questo o quel potente di questa terra. E va salutata con grande favore la possibilità di tanti professionisti di lavorare assieme, ognuno un piccolo tassello dell’operazione. È quella stessa rivoluzione digitale che permette ai finanzieri di compiere operazioni fuorilegge con grande libertà e facilità. La “macchina digitale” va regolata, o meglio va gestita con lungimiranza, anche per evitare concentrazioni di ricchezza stratosferiche. Per il comparto digitale, così come per le questioni morali ricordate, mi sembra essenziale mutare il modello di “controllo” globale attuale, inefficace, che non può essere ormai solo affidato a Stati e cittadini, ma deve includere anche le aziende private. Senza il loro contributo l’unico modo di gestire queste complessità è l’imperio, assai simile a quello che ora vige in alcune ben note capitali mondiali.

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