La passione per la città
Al declinare del secolo scorso, Genova pareva una città al collasso. Era la città più vecchia d’Italia, la più arrugginita, la più decadente. Il porto stava per essere scalzato da quello di Gioia Tauro come hub, come transito italiano di container, non riuscendo a raggiungere quel milione di pezzi considerato necessario perché un grande porto sopravviva nel Mediterraneo. Le industrie chiudevano, il polo siderurgico Ilva in testa, per il difetto di commesse pubbliche. Ciliegina sulla torta, la crisi delle due società calcistiche cittadine, Genoa e Sampdoria. Pochi anni fa. Capito a Genova in questo splendido autunno italiano, proprio alla chiusura del Salone nautico. Non si circola più, il lungomare viene trasformato in parcheggio per i visitatori di una delle esposizioni che più fanno sognare. C’è poi la nazionale che gioca a Marassi, riportando in città il calcio che conta: qualche settimana addietro si è potuto gustare di nuovo il derby, e in serie A! Il Porto antico brulica di turisti d’ogni dove; la gente se la gode un mondo dinanzi a Palazzo San Giorgio rinnovato di fresco, mentre le gradevoli costruzioni futuriste di Renzo Piano – il bigo e la sfera di vetro – spingono al largo la città. Nel porto mercantile i container vengono scaricati anche nel fine settimana (sfiorano ormai i due milioni all’anno), mentre le gigantesche navi da crociera caricano migliaia di passeggeri. Genova è tornata, insomma, grazie anche all’impulso del G8 del 2001 e della nomina a capitale della cultura europea nel 2004. Alberto Ferrucci, imprenditore prima nel petrolio, ora in sofisticate tecnologie, sintetizza così l’oggi della sua città: Genova è un porto, quindi è di per sé passaggio. Non solo di uomini, ma anche di tecnologie, materie prime, fenomeni culturali… È una porta. Tutto arriva, cresce e poi passa altrove. Qui interessano gli affari, per una popolazione che sa essere geniale e un po’ gretta, idealista e materialista. Ri- cordo che una delle etimologie del nome Genova, peraltro discussa, risale a Giano, la divinità bifronte – una faccia al mare, l’altra ai monti -, simbolo del paradosso e della contraddizione. Qui si guarda al mare, al Mediterraneo, e ci si inoltra nello sconosciuto orizzonte quando si fiuta un affare. Oggi si fiutano le nuove tecnologie promosse dai privati (dopo aver perso quella statale e parastatale), il turismo da crociera (e non più quello stanziale), la cantieristica di lusso (abbandonando quella militare). Genova si fa nuova, di nuovo. Integrazione e disintegrazione Eppure la città non è riuscita a cancellare tutte le sue piaghe. Sì, cerca di nasconderle, quelle rimaste, ma non si può celare più di tanto un centro storico – il più grande d’Europa – in cui ampi lembi di quartieri paiono più tipici d’una capitale del Terzo mondo che di una ricca città europea. Dove abitano gli anziani senza risorse e frotte d’immigrati. I toni su quest’argomento sembrano diventare esacerbati. Ad esempio, s’è parlato a lungo, negli ultimi tempi, di una erigenda moschea, osteggiata da tanti cittadini e dalle autorità. Ma il problema più grave non è la moschea quanto l’immigrazione nel suo complesso, concentratasi come sempre nei quartieri, che potrebbero essere chic, del centro storico. Via di Pré, via del Campo, vicolo di Untoria… Un giro nelle viuzze più nascoste e anguste della città – i carruggi – incute in effetti un certo qual timore: bottiglie di birra vuote disseminate ovunque, siringhe ancor sporche di sangue, il disgusto del vomito e degli escrementi… E alzando lo sguardo appaiono palazzi che definire tuguri è più che lecito, spesso puntellati da impalcature arrugginite, senza elettricità e senza fogne. Tutto ciò a due passi dallo scintillante Porto antico. Ovviamente la delinquenza aumenta e la tolleranza zero è il nuovo slogan politico vincente, a destra come a sinistra; tornano la tubercolosi, la lebbra, la scabbia e la sifilide, mentre Aids e altre malattie trasmissibili per via sessuale conoscono diffusioni oltre il 50 per cento della popolazione di certi rioni. Va anche detto che l’immigrazione alla genovese è atipica, poco islamica e a prevalenza sudamericana. Non a caso la comunità più rappresentata è quella ecuadoriana, gonfiata mese dopo mese dagli accorpamenti familiari e dal tamtam degli amici (vedi il box statistico). In questo contesto i servizi sociali non sempre sono all’altezza della situazione, anche perché le emergenze sono continue. Paolo Veardo è assessore all’infanzia, scuola e servizi demografici del comune di Genova: Non bastano i soldi per risolvere problemi come quelli del centro storico – mi spiega -, perché in alcuni luoghi l’amministrazione non può essere presente, perché non verrebbe accettata. Per questo sosteniamo tante iniziative particolari, più vicine alla gente. Penso che qui a Genova si stia elaborando un nuovo modello di integrazione, diverso da quelli francese e inglese, che hanno conosciuto il loro certificato di morte con i problemi delle banlieue francesi e del londonistan inglese. Genova ha perso un terzo dei suoi abitanti in pochi anni e ora si ritrova con le scuole piene di figli d’altre terre, e col rischio di creare cittadini di serie A e B. Attraverso il dialogo, stiamo cercando di evitare sommatorie semplici per trovare adeguamenti reciproci. L’ambulatorio Proprio dinanzi all’ingresso del municipio in via Garibaldi inizia uno dei carruggi più noto, via del Duca. Qui, tra la porticina metallica nera che ospita i mercimoni di una prostituta e la raffinata vetrina di un commercio di libri antichi, una targa indica la presenza di un ambulatorio medico e di un centro di ascolto giuridico. La viuzza è ostruita da una piccola folla in cui si mescolano gente di ogni età, professionisti e immigrati, casalinghe che non vogliono fare solo le casalinghe e pensionati che non vogliono fare solo i pensionati. Si inaugura il centro sanitario e giuridico con la partecipazione di amministratori, e con la benedizione arcivescovile. I medici in camice e gli avvocati in giacca e cravatta paiono emozionati come scolaretti al primo giorno di scuola. Pivelli non lo sono, ma qui prestano servizio volontariamente. Si dice che i genovesi siano tirchi: è falso, almeno in parte. Forse memori delle antiche privazioni, degli assedi e della scarsità di risorse del loro territorio, sanno essere parsimoniosi. Sanno però essere generosi quando vale la pena di esserlo, quando vedono che un’offerta può essere efficace. Allora aprono volentieri il portafogli. Così accade anche per l’ambulatorio oggi inaugurato e così per le attività di Sant’Egidio, che gestisce una mensa, un doposcuola, un ospizio e un dormitorio. Così per le attività dell’Arci, che opera con una serie di cooperative che si occupano di minori e anziani, e così per le suore di Charles de Foucauld e della Città dei ragazzi di Cuneo che gestiscono una casa di accoglienza per prostitute. La cosiddetta sussidiarietà, cioè le attività sociali e civili che nascono dal basso, dalla società civile, ad integrazione delle attività pubbliche, e spesso sostenute proprio dalla pubblica amministrazione, qui sono una realtà. Il Comitato Umanità Nuova, espressione genovese dei Focolari che oggi apre l’ambulatorio – in collaborazione con un altro movimento, Nuovi orizzonti, che si occupa dei colloqui di strada con prostitute e gente malata -, opera nei carruggi del centro storico da più di 25 anni, senza sosta (cf. Città nuova n° 14/2007). Di attività ne ha inventate a bizzeffe, con la fantasia di gente cristiana ma non solo. La bellezza nei carruggi Non c’erano competenze specifiche né, tanto meno, capitali per venire incontro ai bisogni che si incontravano – dice Maria Teresa Genovesi, una delle colonne dell’iniziativa -.Ma forte nel cuore c’era la certezza che il Cristo si nascondeva in ogni uomo . Si era iniziato coi bambini, dietro ai quali erano venuti i genitori, i fratelli, i nonni, tutti coi loro problemi di lavoro, casa, droga, prostituzione. Ora nella sede di via Gramsci ci sono scuole d’italiano, di cucito, di educazione sanitaria e altro ancora. I presenti sussultano allorché Maria Teresa Genovesi parla di bellezza: Vogliamo far sì che la bellezza rientri, seppur a fatica, a riappropriarsi del centro storico, così bello e ancor così degradato, perché non si può ridare dignità all’uomo se non cercando di risanare l’ambiente che lo ospita. Si organizzano perciò concerti, visite guidate, si restaurano le edicole votive che tanto hanno significato per il popolo genovese… Insomma, tutto ciò che può portare aria buona in un ambiente fortemente degradato. L’arcivescovo, accolto da un applauso che accomuna volontari e abitanti, indigeni e immigrati, mentre non poca gente s’affaccia alle finestre richiamata dal clamore, è un uomo amato. E non poco, perché questa è la sua città, perché parla chiaro, perché non cela la possibile contemporaneità di sicurezza e fraternità. Come arcivescovo di Genova – dice – non finisco di stupirmi di fronte alle realtà che vengo a conoscere in questa mia città. Continuo a scoprire queste piccole luci, questi segni di generosità, aiuto e speranza che costituiscono una fittissima rete di bontà; è più questa rete che costruisce la trama della nostra città, una rete assolutamente non esclusiva, ma inclusiva. Sicurezza e fraternità, dialogo tra culture e religioni, attenzione alla città, quasi un amore viscerale per essa – mi dice un’animatrice del centro – non sono poi così lontani. Perché i carruggi non siano un letamaio bisogna amare questa città, sul serio. INTERVISTA A MONS. BAGNASCO UNA RETE DI PICCOLE LUCI A colloquio con l’arcivescovo di Genova, presidente della Cei. Qual è il ruolo del cristiano nelle metropoli del 2007? Essere luce e fermento. Luce, perché ha qualcosa da dire al mondo di particolare e specifico, cioè il Vangelo che risuona nel grembo della Chiesa; e fermento, perché di questa luce deve essere anzitutto il testimone e annunciatore con la parola chiara, distinta, fedele al magistero e testimone negli ambienti dove vive con la coerenza della vita, delle scelte, della condotta. Nella città i cristiani debbono essere una rete di piccole luci. La composizione del centro storico genovese cambia, sia per nazionalità che per flussi migratori. In che modo la Chiesa risponde alle sfide aperte? La Chiesa genovese da anni ormai ha un centro di assistenza spirituale e umana agli immigrati con un referente arcivescovile e con una serie di sacerdoti e laici, anche di lingua, come collaboratori. Dal punto di vista della pastorale religiosa, ogni domenica ci sono celebrazioni della messa per gruppi linguistici, mentre durante la settimana si svolgono catechesi e assistenza spirituale, oltre che una formazione permanente umana e culturale. Vi è quindi uno sforzo di sostegno, che abbraccia sia il rapporto religioso- pastorale, sia l’integrazione culturale, sociale e lavorativa. Una risposta che dovrà continuare e crescere. La maggioranza degli immigrati qui sono cristiani, ma arrivano fedeli di altre religioni. In che modo la Chiesa si pone nei loro confronti? Massimo rispetto della libertà di coscienza, della libertà religiosa, come sempre fa la Chiesa in tutt’Italia, ovviamente. Questo è l’atteggiamento di fondo, il che non esime assolutamente dal desiderio di annunciare quella nostra gioia interiore che è l’incontro con Cristo e quindi l’appartenenza alla Chiesa. Ciò vuol dire raccontare la propria esperienza, ciò che ci sta maggiormente a cuore perché anche altri possano gioirne, goderne e, se lo vogliono, accoglierla. Accanto a ciò il servizio culturale, sociale, integrativo evidentemente vale per tutti e per ciascuno. Questo ambulatorio appena inaugurato è gestito da un movimento ecclesiale, i Focolari, mentre un altro movimento – Nuovi orizzonti – partecipa alla sua gestione. Qual è il ruolo dei movimenti nella città? Nella Chiesa il ruolo dei movimenti lo ha messo molto bene in evidenza Giovanni Paolo II nella Pentecoste 1998, quando convocò i movimenti in Piazza San Pietro in preparazione del grande Giubileo del 2000. Di conseguenza i movimenti partecipano alla vita della Chiesa e della diocesi, in comunione con il vescovo. Sono una realtà preziosissima, un dono dello Spirito sia per i diversi carismi che essi hanno alla base – come ogni ordine religioso, i più antichi e i più recenti -, sia per l’intensità della comunione con il vescovo. Di questi tempi c’è un clima talvolta anticlericale, che si esprime tra l’altro nei titoli dei grandi quotidiani. Come reagisce la Chiesa? Reagisce come il Signore ha reagito nella sua vita terrena e quindi con serenità, pazienza e fiducia. Nello stesso tempo non si lascia intimidire in quella che è la sua missione e la sua fedeltà a Cristo e all’uomo: la fedeltà a Cristo per noi cristiani significa infatti anche fedeltà all’uomo che in Gesù vede il suo vero volto, il suo destino, la pienezza della sua verità. Quindi senza timidezza, senza timore, con estrema serenità e pacatezza, il cristiano continua ad annunciare il Vangelo di Cristo, convinto che la verità non fa male a nessuno. Anzi, fa bene a tutti ed è fermento di civiltà e di cultura, di una società più umana. 36.335 IMMIGRATI Nel 2006 erano 36.335 gli stranieri residenti nella provincia di Genova (10.643 dieci anni prima, con un incremento del 242 per cento, inferiore a quello del Nord, che si attesta al 337). Il 55 per cento è composto da donne, col 53 per cento di popolazione compresa tra 25 e 44 anni. Il 31,9 per cento degli immigrati proviene dall’Ecuador, l’11,9 dalla Albania e l’8,7 dal Marocco. Si riscontrano ora aumenti di arrivi dalla Romania e dall’Est europeo. Nel 2005 la popolazione genovese ha subito un decremento naturale di 4.836 unità, risultato di 11.422 morti e 6.586 nascite. Le immigrazioni sono state di 8.835 unità (di cui 8.087 stranieri), cosicché la provincia di Genova è cresciuta nel complesso di 3.999 unità.