La passione di Martin Scorsese

Il regista newyorchese s'interroga sul silenzio di Dio. Perché Dio tace di fronte al dolore innocente? «Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il grido di Cristo in croce,  in maniera più o meno esplicita, attraversa tanto suo cinema

Instancabile sperimentatore, Scorsese, classe 1942, è un uomo inquieto. Il mondo che rappresenta è violento, dolente, amaro. Dalla durezza dei bassifondi di Little Italy a New York dove è cresciuto e che trasferisce al cinema  su un piano  universale – da Toro scatenato a Taxi driver, da Quei bravi ragazzi  a Gangs of New York  – alla pseudo leggerezza di New York New York, all’ironia graffiante di The Wolf of Wall Stret (2013), sino alla ricerca spirituale di Kundum e alla visionarietà  de L’ultima tentazione  di Cristo.

Sul tema della passione – e della tentazione (che percorre in varie forme ogni suo film) – ora  ritorna con Silence. Tratto dal romanzo del cattolico giapponese Shusaku Endo, che ha affascinato il regista da decenni, il film è complesso,  intenso e la sua lunghezza – due ore e mezzo – non spaventa chi cerca un lavoro dove la storia del passato si rivela quanto mai bruciante e viva nel presente.

«Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Il grido di Cristo in croce, che  in maniera più o meno esplicita attraversa tanto cinema (si pensi all’opera intera del solo Bergman),  percorre anche tanto di Scorsese. Qui viene gridato molte volte, perché la storia dei due giovani gesuiti  portoghesi, padre Rodrigues e padre Garrupe, che di nascosto vanno in Giappone per ritrovare il loro maestro scomparso padre Ferreira, è in definitiva la vicenda di una passione del Cristo rivissuta nel ‘600 e, a ben pensare, anche oggi. E, sotto certi aspetti, dello stesso regista in questo lavoro che, forse più degli altri, è quanto mai autobiografico.

I due gesuiti arrivano in Giappone, incontrano piccole comunità che vivono la fede di nascosto perché infuria la persecuzione contro i cristiani, accusati di seguire una religione pericolosa in quanto estranea alla cultura nipponica. Molti sono costretti a scegliere tra l’abiura e la morte. I due officiano di nascosto, fuggono, sono ricercati e le loro strade si devono dividere: Rodrigues è deciso e sicuro, Garrupe impulsivo, ma sono legati da una forte amicizia. Rodrigues conoscerà sulla sua pelle la passione del Cristo:  tradito da un cristiano debole, arrestato e imprigionato dentro una gabbia, tra lusinghe e visioni degli atroci supplizi a cui sono sottoposti i credenti. L’inquisitore Inoue – eco di Dostoevskij – torturatore sottile delle menti e dei corpi è un Caifa ambiguo che mette alla prova il gesuita in colloqui durissimi, oltre a fargli vedere il confratello morire e prospettargli una terribile fine. Rodrigues, che ha sempre avuto una fede ardente, avverte il silenzio di Dio. In mezzo al dolore Dio tace. Forse non c’è? E se c’è, perché sta in silenzio di fronte al dolore innocente?

La domanda è di sempre e percorre anche la storia degli eccidi del XX secolo, quelli attuali e pure, nel profondo, l’animo del regista, come di ciascuno nei momenti  dell’oscurità. Il gesuita speri menta come Cristo l’abbandono di Dio e precipita nel buio: ma in una pozzanghera vede riflesso, anziché il suo, il volto  di un Cristo mesto e lucente come quelli dipinti da El Greco. La prova non è finita: si fa vivo padre Ferreira, che ha abiurato, è diventato buddista e lo invita a fare lo stesso per salvare i fedeli da una morte crudelissima.

Vale la pena abiurare, calpestare l’immagine di Cristo per salvare il  prossimo? Che farebbe oggi il Cristo? È uno svuotamento di tutto sé stesso che pare questo Dio  silenzioso, ma in realtà terribilmente rumoroso al suo intimo, chiede al gesuita che vede i fedeli morire invocando il nome di Cristo.

Scorsese percorre sino in fondo la passione dei gesuiti, la “sua”personale passione, il suo  grido, che già aveva prefigurato nel 1988 ne  L’ultima tentazione di Cristo. Avvolto da un clima epico  che ricorda Kurosawa, dalla presenza di piogge, acque e soprattutto  nebbie – di evidente significato  simbolico – il film grandioso è girato con straordinaria cura: la fotografia parlante di Dante Ferretti, le scene ed  i costumi preziosi, un cast prestigioso, da Andrew Garfield (la sua miglior performance) ad Adam Driver (perfetto nei suoi silenzi e nella sua fisicità) alla presenza  carismatica di Liam Neeson.  Certo  è un lavoro che suscita interrogativi, parlando di una storia vera, cioè l’apostasia di alcuni gesuiti nel ‘600 per salvare i fedeli. Nel suo narrare per quadri, come in un polittico, Scorsese  non risponde a tutte le domande che si fa e che ci fa, cioè alla più importante: Dio perché non interviene a salvare gli innocenti, perché tace?  Forse lascia a noi stessi la risposta e l’azione? Eppure un segnale, apparentemente insignificante, il film lo lascia: al funerale di padre Rodrigues, molto privato per volontà delle autorità giapponesi, c’è pace e una luce impercettibile su un minuscolo oggetto  nascosto.  Chissà se il grido di abbandono ha trovato risposta dal “silenzio”.

 

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